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giovedì 29 novembre 2012

"Occhi senza più lacrime", recensione





Questa è una recensione particolare. Ciò che leggerete oggi è il racconto di una scrittrice esordiente, Daniela Piccoli, che ha scritto una ventina di brevi racconti di fantascienza in parte pubblicati su diverse raccolte sia on line che cartacee. Che io sappia, il racconto di cui adesso farò la recensione non è disponibile su un sito né in forma cartacea. Per questo ho deciso di postarlo qui in forma integrale per farvelo leggere col beneplacito dell’Autrice. Perché ho scelto proprio questo e non uno dei racconti già pubblicati? La risposta è semplice: si tratta della storia che più mi è piaciuta e che, rispetto ad altre sue, mi sembra più in linea col mio modo di scrivere attuale. L’immagine che vedete in prima è un disegno realizzato dall’Autrice apposta per il racconto. Le altre immagini, invece, si riferiscono ad altri suoi disegni. Passando al comparto tecnico essenzialmente si tratta di un dialogo. Un discorso a due voci, cioè con due soli personaggi, molto diretto, senza fronzoli, e quindi di veloce fruizione. Per quanto mi concerne si tratta anche di un dialogo verosimile. Con questo termine io identifico non un dialogo brillante ma che, proprio per questo, difficile da ascoltare nella vita reale ma neanche uno scarno, ripetitivo e, per usare una sola parola, noioso. Leggetelo e poi non mancate di scrivere le vostre sensazioni. Alla fine del racconto troverete l’elenco completo, inviatomi dall’Autrice stessa, relativo a tutti i suoi racconti. Alcuni di essi sono completi di link o, comunque, dei dati relativi alle pubblicazioni (quando e se pubblicati). Spero che questo racconto vi piaccia come è piaciuto a me. 

Marylin Monroe, la ginoide protagonista del racconto L'Androide 518L


Il racconto:

“OCCHI SENZA PIU’ LACRIME”


L’investigatore entrò nella stanza. In un angolo seduta compostamente stava una donna. Il vestito, elegante e costoso, era ancora sporco di sangue, lo sguardo perso in chissà quali pensieri.
L’uomo si mise di fronte all’omicida con una cartella in mano, poi dopo averla aperta, sparpagliò una serie di foto sul tavolo.
- Allora, signora Marcelli, lo riconosce? Guardi bene le foto della vittima. - Le vedo. Lo riconosco. - Sa quindi come si chiamava? Chi era? - Si chiamava Antonio Volpi. - Signora lei è stata trovata con un coltello in mano, nella villa di questo signore, mentre infieriva sul suo corpo dopo averlo colpito con quattordici coltellate. - Si erano quattordici. Una per ogni anno. - Una per ogni anno cosa? - Una per ogni anno. - Non capisco. - Non importa. Lei non può capire. - L'ha ucciso lei, quindi. Confessa. - Si l'ho ammazzato io. - Perché? Perché dice che io non posso capire? - Lei è troppo giovane. Quanti anni ha? Ventisette, ventotto? - Ne ho trentadue. Ma può parlare, può spiegarmi. Forse posso capire. - Non credo. Ha figli? - No, ma spero di averne. - Glielo auguro. È una bella cosa avere dei figli. - E lei ne ha mai avuto qualcuno Anna? Posso chiamarla Anna? - Può chiamarmi come vuole. - Lei ha appena confessato un omicidio, vuole un avvocato? - No. Non mi interessa. Ormai non ha più importanza. Nulla ha più importanza.
- Torniamo ai figli. Quanti figli ha avuto, Anna? - Una. Sul volto della donna per la prima volta aleggiò un accenno di sorriso, come se stesse ricordando qualcosa di bello.
- Una bambina, quindi. E ha anche un marito? – Il detective Polvani era perplesso. Secondo i dati in suo possesso la donna non aveva figli.
- Non più. È morto.
Un’agente bussò nella saletta. Chiamò l’investigatore da parte, gli disse alcune cose sottovoce all’orecchio e poi andò via. Polvani si rimise seduto con un sospiro. Adesso capiva. Altroché, se capiva!
- Signora mi dicono che i suoi documenti sono falsi. Lei non si chiama Anna Marcelli, il suo vero nome è Lara Leonelli e il vero nome della vittima è invece Mario Corsetti.
- È vero.
- Perché ha cambiato nome?
- Dovevo farlo, altrimenti lui mi avrebbe riconosciuta.
- Già, ha cambiato nome, ha cambiato il colore dei capelli, ha usato lenti colorate. Tutto per avvicinarlo, vero?
- Sì, non mi avrebbe permesso di andare nella sua villa e di restare da sola con lui. Avrebbe capito subito le mie intenzioni.
- Invece lo ha abbordato. Ha premeditato tutto Lara?
- Si
- Quando?

- Quando l’ho trovato.
- Lei è riuscita dove noi non siamo arrivati.
- Le mie motivazioni erano molto più forti delle vostre. E non avevo le mani legate dal fatto che fosse un uomo ricco con tante conoscenze altolocate. Ho passato ogni minuto della mia vita a cercarlo, dopo che voi l’avete rilasciato perché non avevate prove.
- Già. Ma lei è sicura che sia stato lui?
- Oh, lo ha confessato. Mi ha spiegato tutto. Non voleva dirlo, ma io ho usato la stessa tecnica che ha usato con mia figlia. Dopo averlo drogato e legato, ho atteso che si svegliasse e poi ho acceso una sigaretta e ho minacciato di spegnergliela sul corpo, se non avesse parlato. Era un vero codardo. Dopo le prime due bruciature ha confessato tutto. - Sul volto di pietra della donna, passò un sorriso di soddisfazione. – Io mi sono fermata. Mia figlia non ha avuto questa fortuna, prima di violentarla, lui l’ha seviziata con quindici bruciature. Tre su un seno, quattro sul braccio destro, una nella…
- Basta. Non dica altro. Non si torturi oltre.
- Non posso. Io quelle bruciature le sento ogni giorno sulla mia pelle, una per una, ogni volta che mi sveglio e che ricordo chi sono e che avevo una figlia. Aveva solo 14 anni, era ancora una bambina. Aveva la vita davanti e quell’uomo me l’ha uccisa, in quel modo, per fare i suoi comodi. E continuava ad andare in giro libero, libero di fare ad altre ragazzine quel che ha fatto alla mia. Ha confessato non solo l’omicidio di mia figlia, ma anche quello di quell’altra ragazzina che era scomparsa un anno fa.
- Sara Bernardi, quella ritrovata in quel casolare abbandonato? – chiese Polvani,
- Si, Sara, si chiamava Sara. E ne ha nominata un’altra, una che non avete mai trovato. Chiara, ma non ricordo il cognome. Ha detto di averla seppellita in una bosco a nord della città. Ha riferito che vicino c’è un casolare in rovina, e una grande quercia.
L’investigatore si appuntò tutto, anche se tutto l’interrogatorio veniva registrato.
- E poi, dopo la confessione dei tre omicidi, cosa ha fatto?
- Gli ho fatto credere che lo avrei lasciato libero, che avevo registrato tutto, che avrei chiamato la polizia e che stavolta con la confessione che aveva fatto, non avrebbe avuto scampo. E come avevo immaginato, lui mi ha guardato con uno sguardo spavaldo. Non l’ha detto ma, una confessione estorta con la tortura, con gli avvocati che si poteva permettere lui… L’avrebbero rilasciato nel giro di due ore, e sarebbe potuto sparire di nuovo con una nuova identità. Così l’ho colpito, quando meno se l’aspettava. Ho affondato il coltello nella sua carne, e ho atteso ogni volta per ogni coltellata un po’ di tempo, in modo che si rendesse conto, che soffrisse. Per quattordici volte ho affondato la lama nel suo corpo, facendo uscire il suo sangue lentamente. E sa una cosa?
- Cosa Lara? – chiese l’investigatore guardando in quegli occhi ormai senza più lacrime.
- Non credo che abbia sentito il dolore che ancora sento e sentirò io per tutto il resto della mia vita.


Un altro dei disegni di Daniela Piccoli


Elenco delle opere dell’Autrice

L’amante perfetto – Libro di Out “13 screziature d’amore”
Uno strano caso (la pietra dai riflessi viola) – Space Prophecies Antologia vol. 2 (Yavin 4)
Il pianeta incontaminato – I bonsai di Carmilla
La cuffia R-8 - 256 K di Bravi Autori
L’androide 518L – NASF 7
L’ascensore del futuro - NON SPINGETE QUEL BOTTONE di Bravi Autori
La spia dei Menkari – NASF 8
Il pianeta VVolant -http://www.braviautori.com/il-pianeta-vvolant.html
Il regno di Fumoscuro – http://www.braviautori.com/il-regno-di-fumoscuro.html
La notte di Halloween – http://www.braviautori.com/la-notte-di-halloween.html
La notte più lunga - http://www.braviautori.com/la-notte-piu-lunga.html
Sperando –  http://www.braviautori.com/sperando.html
Strane coincidenze – http://www.braviautori.com/strane-coincidenze.html
Una rapina in banca - http://www.braviautori.com/una-rapina-in-banca.html
Una giornata particolare – http://www.braviautori.com/una-giornata-particolare.html
Occhi senza più lacrime – http://www.braviautori.com/occhi-senza-piu-lacrime.html
Un incontro clandestino - http://www.braviautori.com/un-incontro-clandestino.html
Gioco di sangue - inedito
La brain-wavecam - inedito
Svaniti nel tempo – inedito
L’amore di una donna – sarà edito su “77 le gambe delle donne” Bravi autori
La sezione 13 della biblioteca comunale – inedito (sta partecipando a un concorso)




Massimo Valentini




giovedì 22 novembre 2012

Bianco Assoluto, racconto




Edit: racconto breve, scritto sul momento. Si riferisce al mio prossimo romanzo pubblicato. Ancora i tempi non sono pronti per darvi nuove: abbiate pazienza e intanto leggete…




Mi avvicino al tavolo. Il computer portatile ha lo schermo sollevato, la macchina sembra guardarmi in modo invitante. Sembra. Mi siedo e i miei occhi danzano sulla tastiera esterna. Non uso mai quella del pc, la trovo scomoda. In compenso il sistema è immacolato come una vergine sull’altare di un grande sacerdote. Diversi tasti sono impolverati. Vedo frammenti di cibo, molliche, macchiette bianche meno identificabili che sembrano chiamare a gran voce una bella pulizia. La farò, un giorno o l’altro, lo so. Almeno credo. Accarezzo il tasto di stand-by e nuova vita luminosa scorre sullo schermo traslucido, lo rende animato. Forse è vivo e mi sta guardando. Mentre attendo che il sistema si stabilizzi mi guardo intorno. Il mio appartamento sembra la fiera dell’assurdo. Patatine giacciono sbriciolate sul pavimento, una bottiglia d’acqua vuota fa loro compagnia. Qua e là vedo scarpe, pantaloni gettati senza riguardi sulle poltrone, libri in vari stadi di decomposizione. Tra essi i miei libri, quelli già pubblicati, non il mio tesoro. Gli inediti, neanche completi, che riposano eterei dove l’occhio di nessuno potrebbe arrivare. Il mio respiro è il solo rumore nella stanza; mi ricorda il suono di una vecchia sveglia che so non suonare mai, anche se mi fa paura. Paura di sbagliare, di non scrivere, di non sognare. Paura che un giorno tutto questo finirà e io morirò di follia tra quattro pareti che non riconoscerò come mie. Mi chiedo cos’ho che non va. Sono umano e non mi sento parte della categoria. A dire il vero non so neanche se sono un povero pazzo. Io che desidero con tutto il cuore la stabilità della mente e nello stesso tempo voglio che la mia anima sia libera. Le mie dita si tendono, cominciano a pigiare sui tasti. Adesso è loro la musica, la melodia, anche se il suono è cacofonico, per nulla armonioso. Sbuffo e ingollo un po’ d’acqua fredda da un’altra bottiglia, stavolta ghiacciata. La conosciuta sensazione del liquido freddo tocca la pelle delle mie dita, la galvanizza, mi piace. Lascio che il liquido risvegli le mie cellule cerebrali e intanto provo a scrivere. Ma Althaira non è con me, non in questo periodo, e allora mi alzo e vado alla finestra, a fissare l’assurdo panorama di un posto qualsiasi. Dove i norm sono là fuori, indaffarati, imbecilli. Loro vivono e io no, io vivo e loro sono morti. Qual è la verità? Chiudo gli occhi, sospiro, mi volto come un leone in gabbia. Vorrei evadere da qui, fuggire lontano, dove nessuno possa raggiungermi. Dove pioggia e freddo non esistono. Dove esiste solo il vento. Sì, il vento impetuoso ma tiepido che dissolve i miei pensieri, che mi fa ritornare ingenuo come un tempo! Sono in cerca di qualcosa, eppure fuggo da cose che non hanno nome né voce. Cose che assalgono e divorano, cose che consumano la mente e rendono cieca la libertà. Mi chiedo se l’abbia mai conosciuta, se basti vivere da solo, senza un cane con cui dividere il mio spazio vitale, per averla. L’amore, dicono, rende liberi. Chi lo dice, i Felicemente Sposati? I benpensanti? O quella vocina con la quale ciascuno di noi ha a che fare, una volta passato il giro di boa degli “anta”? Ma io che amore non ho e che allo stesso tempo so descriverlo, io che sono tutto e niente, che sono vivo e sono morto, che amo e odio con la stessa intensità sono nulla più che un piccolo uomo che sogna di diventare grande. Di accettare la mia diversità. Grido ai quattro venti il mio peana d'amore, vado incontro al vento a cercare chimere. Urlo senza voce in questo mondo che non ha paura perché privo ormai della memoria. Io che sono pazzo, solo, amante e sterile. Io che ho visto l'orrore e che sono tornato per non raccontarlo. Io che nessuno capisce e che non voglio capire di essere umano, niente di più. La vita non è un raggio di sole, ma un inganno. Una frode, un giro di valzer, il primo e l'ultimo. La vita dove manichini senz'anima si vestono con belle parole per recitare assurde litanie. Le cantano in quei templi dove fingono di amare e invece sono soli. Perché io sono il vuoto in ascolto, l'uomo che sogna di vivere. E allora, libero, mi chiedo se so amare più io o uno qualsiasi di loro. 


Massimo Valentini

giovedì 15 novembre 2012

"Un bacio dagli abissi", recensione






Care e cari,

vi chiedo un altro po' di pazienza per sapere nuove relativamente al mio prossimo romanzo. Il mio Editore ci sta lavorando. Intanto, eccovi questa nuova recensione... 


trama:

“Lily pensa che il suo nuovo amico Calder sia un ragazzo normale. Calder, però, nasconde un terribile segreto: fa parte di una stirpe di sirene e tritoni assassini, che vivono nei Grandi Laghi e si nutrono dell’energia degli esseri umani. Spinto dalle sue sorelle, il ragazzo esce dall’acqua per uccidere l’uomo responsabile della morte della loro madre. L’uomo è il padre di Lily e l’unico modo per avvicinarlo è sedurre sua figlia. Abituato ad ammaliare le ragazze con la sua faccia d’angelo, Calder scopre che Lily è molto speciale: si veste con abiti retrò, ha un volume di poesie da cui non si separa mai e, soprattutto, non cade subito ai suoi piedi, costringendolo a passare molte giornate insieme. E in queste giornate, proprio mentre Lily inizia a capire che le leggende dei laghi hanno un fondo di verità e le acque profonde potrebbero riservare pericoli mostruosi, Calder si innamora di lei.”


Recensione:

Lo so, non avrei dovuto fare questa recensione: lo sanno tutti che anche parlare in modo negativo di qualcosa è pur sempre pubblicità gratuita. Di questo libro ho apprezzato una cosa sola: non ho pagato per leggerlo. Già dalla trama, mielosa quanto basta per prenotare un appuntamento dal dentista, si capisce a cosa si va incontro. Un qualcosa che deve tutto agli urban fantasy di Stephenie Meyer, l'incontrastata autrice di vampirelli gnokki adolescenti, gli stessi che hanno fatto rivoltare Stoker nella tomba. Comunque, dopo la sbornia vampiresca, ecco una nuova front-line dell’Urban Fantasy per adolescenti: i sirenetti assassini. Già il titolo del romanzo ha un ché di patetico. Sembra un Harmony, in effetti. La copertina è graziosa, ma sinceramente non giustifica un esborso di 16 euro per 300 pagine, non pagine scritte in questo modo, almeno. Un’accozzaglia di cose trite e ritrite del genere che faccio fatica a credere che tale romanzo non sia stato scritto dal maestro italico in persona, Moccia. 


Il Sommo mostra sempre uno sguardo di rara intelligenza

Uno sputo in faccia alle regole della Narrativa che si accompagna a una trama che è la copia di mille racconti. Basta sostituire il sirenetto, anzi, il tritone Calder con un qualsiasi personaggio Fantasy e non vi accorgereste della differenza. La storia è sbattuta sulle pagine senza un filo logico, senza offrire un minimo di spiegazione a chi legge. Credibilità zero. Tra l’altro Calder, il protagonista, che nelle intenzioni dell’Autrice doveva evidentemente essere innovativo rispetto alla miriade di romanzetti Urban Fantasy oggi di moda, si rivela essere un perfetto imbecille. Stereotipato (è il solito eroe gnokko qui in versione kattiva che però, ma guarda!, s’innamora e diventa buono!) non ha le palle per essere davvero un antieroe. Qui abbiamo un tizio abituato a sedurre ragazze per prosciugarle della loro “essenza vitale” e quindi, sulla carta, un assassino spietato. Ora, se fossimo nella realtà, vorrei vedere un assassino navigato che cade ai piedi della prima cretina che incontra. E, per carità, non ditemi che l’amore vince tutto. Potrà anche essere, ma io mi aspetto che l’amore di un individuo del genere sia incentrato su una donna di un certo livello, una che certamente non potrebbe essere Lily, l’amorfa, carina e senza un neurone Lily! A meno che il nostro bel Calder non sia il solito tronista del terminator   di Maria de Filippi in versione sirenetto. Che poi, a ben pensarci, sembra proprio così. Calder somiglia di più alla versione maschile della Dubhe troisiana, un tizio che litiga con le sorelle, piange, frigna ed è ovviamente bello da morire. Insomma, questo romanzo fa piangere i coniglietti davvero perché, se l’autrice voleva descrivere il classico, ma virile anti-eroe ha sbagliato col botto.


Non leggere porcate: i coniglietti sono esseri sensibili e timidi


Superficiali gli altri personaggi a partire proprio da Lily, una tizia che sembra trasparente per quanto è insulsa. E io che pensavo che la  penna della Meyer fosse insuperabile nel campo delle ovvietà. A quanto pare quella di Anne Greenwood Brown è una sua degna concorrente. Dimenticavo che, ovviamente, questo romanzo è il primo capitolo della solita trilogia. Questo libro è quindi un prodotto commerciale al 100% come si evince sia dalle caratteristiche dei protagonisti sia dalla scontata, stupida trama. Solo che, alla fine, uno si chiede che diamine di competenze avrebbero certi editor per scegliere queste storie. Se avessi una sorella di sei anni probabilmente scriverebbe meglio della Brown: è proprio vero che per tutti c’è speranza.



Massimo Valentini 

domenica 14 ottobre 2012

Scrivere baby o scrivere davvero




Come sapete il vecchio detto di popolo di artisti, santi e navigatori è tipico del nostro Paese. Non è affatto raro incontrare, sulla Rete, domande e risposte, tipicamente su Answers, di persone che chiedono ingenuamente trucchi e dritte per scrivere un libro. Una richiesta che fa il paio con le velleità canore che furoreggiano ovunque, come testimoniato anche dai soliti, onnipresenti reality arrivati alla mille-millesima edizione su tale falsariga. Lasciando perdere il mondo del canto, che non è di nostra competenza, sembrerebbe però che l’Italia sia un paese di aspiranti scrittori, e che molti di questi sono adolescenti. Ricordo che, anni fa, un pomposo Maurizio Costanzo, dal palcoscenico del suo omonimo Show, presentò al pubblico una scrittrice che definirei iper-baby (una bimbetta di pochi anni) che aveva pubblicato il suo primo libro. Alla domanda del cosa pensasse del libro che, se ricordo bene, inneggiava alla vita, ella rispose: “La vita è un raggio di sole!” e giù applausi come se piovesse. Tornando a tempi più recenti e al solito Answers, domande del tipo “come si scrive un libro?” o “Salve, vorrei scrivere il mio primo Fantasy. consigli?" oppure  "Ho finito di leggere Tolkien e i libri della super-stra-mega-fantastica Licia! Adesso vorrei scrivere un romanzo io...  10 punti a chi mi risponde, please!”  sono la norma. Domande che si aggiungono ad altre, anche più gustose, che fanno: “Voglio scrivere un romanzo… Però ditemi la trama!” come se questa si trovasse al supermercato pronta e in offerta speciale. Non c’è nulla di kattivo a porre domande del genere, se non fosse per un dettaglio: scrivere, anche se non sembra a un osservatore superficiale, non è esattamente come bere un bicchier d’acqua. Si può imparare, ma non si trova pronto su internet né si può pretendere che qualcuno ti riveli la trama del secolo, magari senza vampirelli mosci ed elfi yahoi tra i piedi. La cosa carina è che buona parte di tali pretendenti al trono dello Scrittore Superfighissimo, mostrano poco rispetto per la sintassi italiana, visto gli svarioni grammaticali degni del bimbominkiese più trito. Il fenomeno è ormai di costume da quando, complici case editrici più o meno furbette, sono diventati di moda i cosiddetti baby-scrittori. Ecco la definizione tipica:

Un “baby-scrittore è una persona, di solito non ancora maggiorenne, che riesce a scrivere un romanzo (probabilmente Fantasy o urban-Fantasy) raggiungendo un grande successo di critica e di pubblico. “Baby” è ingrediente importante per garantire una freschezza immaginativa adeguata al progetto di trame innovative e nuove, di grande seduzione letteraria”.


Traduzione per il volgo:

“Dicesi baby scrittore una persona adolescente tra i 12 e i 18 anni che riesce a pubblicare il suo libro grazie a politiche di marketing indovinate. Di solito, non ha mai letto un Fantasy (se pubblica un Fantasy) o comunque scrive grazie a ispirazione fornita dalla Strazzulla, dagli starnuti. Capita anche che scopiazz  tragga ispirazione dal solito Tolkien o, nei casi meno fortunati, dalla Troisi (quella che batte a casaccio sulla tastiera per inventare i nomi dei propri personaggi). Le conseguenze sul piano letterario sono disastrose, ma in compenso fa molto figo perché a 14 anni pubblica con Mondadori e voi no... gnè gné, gnè!”

Già che ci sono comincio subito col dire che io ho iniziato a scrivere a 14 anni, buttavo nel water ciò che facevo, ma ho cominciato il mio primo romanzo a 16 anni. Ho però iniziato a vendere i primi racconti a 18 e ho pubblicato per la prima volta, col mio nome, a 33 anni. Non ho intenzione di usare il politicamente corretto perché non mi interessa farlo e so distinguere l’educazione dal moralismo bigotto da quattro soldi; quindi proseguo col mio ragionamento. Ciononostante, sono consapevole di essere umano, e quindi di sbagliare, e non pretendo che queste note passino per Verità Assoluta et Universale, ma sono comunque un mio pensiero ben “aiutato” dalla mia esperienza letteraria. Ciò mi rende certo di non scrivere stupidaggini
Copertina di "Eragon"
Storia:

La storia del baby-writer cominciò con Paolini (Christopher) che alla bella età di 15 anni scrisse "Eragon", un  romanzo che capitò tra le mani di Carl Hiaasen, scrittore noir, che lo propose alla sua casa editrice. "Eragon" divenne un caso editoriale da 25 milioni di copie. Al di là del fattore C di Paolini, non possiamo dire che di Fantasy non ne masticasse, anche se "Eragon" sembra pari pari la versione Fantasy di Star Wars… A latere del suo straordinario successo ecco comparire la trilogia di "Acqua-Silva", di Anselm Audrey (nata nel 1982) da noi edita dalla Editrice Nord. In Francia, Flavia Bujor pubblicò a 13 anni  “Le tre pietre”, edito da noi dalla Sonzogno. La Perfida Albione, l’Inghilterra, è invece la patria di Catherine Banner che a soli 14 anni scrisse “Gli occhi di un re” ed è stata pubblicata da noi dalla Mondadori. Non sono tutti i casi di autori stranieri ma solo un assaggio. In Italy troviamo la già citata Licia Troisi che poco più che ventenne, allora, pubblicò “Nihal della terra del vento”, con Mondadori.
Un baby writer contento
A questo proposito, è curioso notare come i fan trovino notevoli cambiamenti di qualità negli altri due libri della sua prima trilogia, quando invece si trattava di un solo libro-mostro da migliaia di pagine diviso per motivi di marketing dalla Regina. Luca Centi, classe 1985, scrisse invece “Il silenzio di Lenth” per la Piemme. Chiara Strazzulla, sì, quella che scrive a starnuti, esordisce con le 800 pagine de “Gli eroi del crepuscolo” marchiato Einaudi. Non dimentichiamo Alessia Fiorentino, che ha scritto “Sitael, la seconda vita” per la Dario Flaccovio. (nonché di prossima rece su questi lidi). Il già recensito “Bryan di bosco quieto nella terra dei mezzi demoni” è di Federico Ghirardi, per la Newton & Compton. Non sono i soli: ne esistono tanti, tantissimi altri. La domanda che sorge è una sola: perché? Prima che qualche furbastro dica "dici così perché sei invidioso!” la domanda in questione andrebbe in realtà scritta così: “I romanzi di questi giovani scrittori sono validi? No, e questo nel 90% dei casi. Molti di voi mi hanno mandato almeno un romanzo di tali nomi che mi ha fatto letteralmente cadere le braccia. Il difetto principale è che, nel caso di Fantasy, tutti, da Paolini alla Strazzulla, da Ghirardi a Elisa Rosso, sembrano essersi ispirati al solito Tolkien. Non ho mai notato trame nuove, personaggi diversi dai soliti, tematiche differenti. Non solo: intrecci e stili sono anche abbastanza mediocri e questo è un dettaglio di non poco conto giacché molti di questi romanzi sono stati pubblicati da Big e non da casette editrici dove lavorano 4 persone. Spesso i personaggi sono senza carattere (come Bryan di Ghirardi: un perfetto idiota! Il personaggio, dico, non l’autore). Dobbiamo anche evidenziare che questi libri sono tutti di genere Fantasy e sono fatti davvero col copia e incolla. Apritene uno a caso e vedrete la solita cartina geografica disegnata col compasso e quella sarebbe, per loro, l’ambientazione. Dal punto di vista dello stile, e quindi della tecnica, le cose non sono esaltanti. Pov ballerini, infodump a manetta (tanto è Fèntasy!) stili scadenti, personaggi che definire piatti sarebbe un eufemismo, definiscono la vera essenza di questi libri e cioè che poco importa da chi sono pubblicati: sempre scadenti sono. Ma perché pubblicare da giovanissimi? Perché non aspettare di migliorarsi, di continuare a leggere sempre meglio e, di conseguenza, scrivere sempre meglio? La mia spiegazione è che oggi si è tutti affetti da un terribile morbo: protagonismo. Genitori che considerano i propri figli come geni anche se hanno scritto solo tre paginette e che corrono a vantarsi con amici, parenti e a inviare lettere agli editori. Se ci pensate bene la cosa non è diversa da quei baby cantanti, così ben ammaestrati da media e genitori, che sgomitano tra loro sul palco di una nota rete italica. Baby cantanti che parlano, anzi no, che cantano di amore, sesso, filosofia ecc, in un modo che sinceramente considero agghiacciante. Così è per quei genitori che chiedono al figlio/figlia: “quante pagine devi scrivere, ancora?” o “Aspetta che chiamiamo zio X che ha contattato l’editore Y perché sei davvero bravxxm!!!!” Ovvio che dal canto suo, il baby scrittore crederà davvero di essere Poe, magari senza sapere chi era poi, stò Poe!  E gli editori? Beh, per loro è marketing e quindi guadagno, vi pare? Ignoreranno il massacro della lingua italiana, si faranno beffe della trama e pubblicheranno il giovane esordiente con una minima passata di editing (leggete uno qualsiasi dei libri della Troisi e vedrete…). In libreria, se è una Big, il libro ostenterà con orgoglio la fascetta che recita: “capolavoro scritto solo a N anni…” e subito una marea di pubblicità, seguita dalle recensioni entusiaste di tutti i lecchini critici compiacenti, mentre il pubblico poco specializzato berrà con entusiasmo la balla dei milioni di copie venduti. Non credo che quello descritto sia un panorama immaginario: è sufficiente guardare alla marea di nuovi libri pubblicati ogni anno e l’ego degli autori pubblicati che non accettano la minima critica alle loro opere. Adesso, già vedo le critiche di chi taccerà chi scrive di “invidia”, “kattiveria” e “arroganza” e bla, bla e bla, il fatto è che per giudicare un libro servono tempo (per leggerne tanti), voglia (per fare la stessa cosa senza guardare sempre e solo la televisione) e competenza (ovvero una testa che funzioni scevra da idiozie perbeniste da quattro soldi) E prima che lo dicano altri lo faccio io: Ho pubblicato finora sei libri, nessuno a pago anche se  non ho mai pubblicato con Mondadori o con l’Einaudi, ma con piccole case editrici. Voi sapete che un altro mio libro è prossimo alla pubblicazione e, se Althaira mi aiuterà, così sarà sempre. 
Writer autentico al 100%
No, non sono invidioso e no, non voglio essere ricco, famoso e amato dalla figa. E non sono contro la gente che ha la passione di scrivere, sia chiaro: preferisco vedere gente che scrive, Fantasy, SF o quel che vuole, invece di sparare stronzate alla Lapo Elkan, di ubriacarsi, o di  sbavare all’uscita dell’ultimo modello di supertelefonino che fa figo. Solo, quando arriva il momento di pubblicare, magari con un editore NON EAP, chi scrive, baby o meno, diventa appunto un autore pubblicato, cioè ha lanciato verso il pubblico un documento. Come tale deve scrivere libri leggibili, non ciofeche. E no, non conta con chi hai pubblicato, né quante copie hai venduto grazie alla pubblicità. Perché, e lo dico sinceramente, non mi serve l’Einaudi o la Pinco Pallo Editore per capire che i libri di una qualsiasi Melissa P sono merda allo stato puro. Quel che serve è la voglia di scrivere per davvero e per farlo, come diceva un fesso di nome Kubrick,  serva il tempo che serve. Volemose bene
Massimo Valentini


lunedì 8 ottobre 2012

"Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" Recensione


Questa volta affronteremo la recensione di un romanzo che ha fatto storia e che è universalmente riconosciuto dalla Critica come uno dei titoli più significativi della Fantascienza di ogni tempo. Parliamo di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip K. Dick, dal quale è stato tratto un altro capolavoro, stavolta di celluloide,  e cioè “Blade Runner”, di Ridley Scott. Perché? Perché lo sto rileggendo in questo periodo (si può dire che ormai io lo conosca a memoria) e perché mi sono francamente annoiato di leggere paccottiglia sf moderna, che appare spesso come una confusa rielaborazione di temi già affrontati, con la parziale eccezione di titoli come “Neuromante”, di Gibson, e pochi altri. Contrariamente a quanto si legge in molti siti che presentano una recensione di questo libro, io non mi limiterò agli elogi fini a se stessi, ma cercherò di evidenziarne  i difetti  alla luce delle ultime tendenze tecniche e narrative in voga al momento.
Trama:


Rick Deckard, è un “cacciatore di taglie”. Il suo é un lavoro particolare: ritirare, cioè uccidere, gli androidi che arrivano di nascosto sulla Terra. Proprio come quella di molti altri impiegati, anche la sua è una vita squallidamente ordinata, ambientata in una città semi-deserta e coperta di macerie. La polvere radioattiva ha ormai condannato gli abitanti a degenerare e morire, a meno che non emigrino su Marte, una delle Colonie Extramondo. Il rischio è l’alterazione delle capacità intellettive, che rende “cervello di gallina”, chi si ostina a non partire. Deckard vive in un mondo dove il sole non è più visibile e il genere umano è destinato a scomparire tra i rifiuti, la “palta”, come sono chiamati da Dick. Sposato a una moglie sempre depressa e che lo deprime a sua volta, con lo stipendio che non gli basta per vivere se non “ritira” sempre nuovi androidi, ha un solo fine: raccogliere soldi sufficienti per acquistare un animale autentico per fare a meno della “pecora elettrica”, la copia artificiale di una pecora che ospita sul terrazzo del edificio dove vive.  Già perché il suo mondo, decimato dalla guerra nucleare, ha perso ogni specie animale che dunque trova quotazioni altissime sul mercato. Invidioso della cavalla Percheron del suo vicino egli si affanna a cercare uno struzzo, una mucca o una capra per acquisire quello status che nel suo mondo sono gli animali. Gli androidi sono il contraltare umanoide degli animali elettrici che i cittadini con meno possibilità economiche acquistano per far credere agli altri di avere anche loro un animale. E questo lato ipocrita della società è così perfetto che i tecnici autorizzati a ripararli indossano vestiti e divise da veri veterinari. A differenza degli animali elettrici, però, gli androidi sono macchine biologiche costruite per il combattimento, il piacere e il lavoro. Lo slogan delle autorità, che rimbalza sui media e in televisione, recita che per ogni famiglia che emigra ci sarà un androide come compagno e schiavo.


Un fotogramma tratto da Blade Runner

Il loro desiderio è quello di essere umani o almeno accettati dai loro stessi creatori come individui e non come schiavi. I cacciatori di androidi come Deckard sono l’ultima difesa tra l’uomo e la sua copia artificiale ma organica, così umana da provare sentimenti se vive per troppo tempo. Per evitarlo, gli androidi sono forme di vita limitate geneticamente a una vita di 4 anni. La differenza con i veri esseri umani è che i primi mancano di empatia, cioè di consapevolezza e di partecipazione emotiva verso qualsiasi cosa. Ma i Nexus 6, questi i nomi delle più evolute di queste macchine, risvegliano gli occhi sopiti di Deckard verso un mondo che sembra confuso: quello della realtà. Egli stesso dubita a un certo punto di essere umano e quando comincia a provare una forma di pietà verso i suoi bersagli si ritrova a osservare il proprio mondo che si dissolve. Il solo valore di quel mondo, animali autentici a parte, sono le scatole del Predicatore Wilbur Mercer, predicatore che somiglia moltissimo, dal punto di vista filosofico, al Cristo. A differenza della Figura Cristiana si rivela anche lui un inganno, un attore che recita un ruolo. Accanto a questi abitanti, tra androidi troppo umani e umani troppo meccanici, un cervello di gallina, J.R. Isidore, uno dei tanti alter ego che affollano i libri del Nostro. J. R. Isidore è il solo a chiedersi cosa sia, il solo che provi sentimenti, il solo che avverta la propria solitudine e ne abbia paura. Disprezzato dagli stessi androidi è l'ultimo esempio di umanità perduta, un anti eroe di scarsa intelligenza ma, proprio per questo, più umano di androidi e cacciatori di androidi.
Ridley Scott e Dick

Recensione


Su questo romanzo hanno scritto di tutto quindi non avrebbe senso lanciarmi in arzigogolate interpretazioni filosofiche della trama. Sarebbe come recensire per la centesima volta "via col vento". A chi e a cosa servirebbe? qualsiasi appassionato di Fantascienza dovrebbe averlo già almeno sfogliato, quindi concentrerò il mio esame sui pregi e sui difetti. Vediamo...
Infodump A iosa. Per esempio, già il 1° cap, quando cioè Rick chiacchiera della cavalla col vicino, tra i suoi pensieri ci sono riferimenti alla polvere radioattiva della Terra. Il 2°, poi, quello che presenza J.R. Isidore (che in Blade Runner diventa J.R. Sebastian), è tutto un fiorire di infodump relativamente alla guerra, all’esodo verso Marte e al perché gli androidi venivano consegnati agli abitanti che decidessero di emigrare. Idem, quando appare Isidore che guida il camioncino per la ditta che ripara animali finti, e quando incontra Pris, la donna androide gemella/clone di Rachel (quella con cui farà sesso Deckard), lo stesso Isidore riflette sul perché lui è un “cervello di gallina”, di fatto presentando infodump di primo tipo mascherato da secondo.
Trama Dick NON spiega cosa ne fanno gli abitanti terrestri degli animali. Il vicino ha una cavalla che non fa altro che ruminare la propria  biada. Ma un cavallo DEVE camminare, gli serve spazio e non può correre sulla terrazza di un palazzo come tanti. Allora, che se ne fa il suo proprietario? E lo stesso Rick che a un certo punto adocchia uno struzzo, dove lo ospiterebbe se non sul tetto del suo palazzo e quindi, di fatto, condannandolo in gabbia? E a che serve possedere un animale all’esterno, sapendo che alla fine morirà a causa della polvere onnipresente? Se è vero che la trovata di limitare la vita degli androidi a 4 anni è eccellente a questo punto sembra superflua la figura del Cacciatore di Androidi. Perché tutti gli androidi prima o poi moriranno e non sono capaci di riprodursi, come dirà Rachel al protagonista.

Locandina di "Blade Runner"

Verosimiglianza scientifica Dick non spiega neanche determinate tecnologie. Molte di queste sono dichiaratamente arcaiche anche per i nostri tempi. Questa è una costante di tutti suoi romanzi, come se questi dettagli fossero secondari. Può essere che effettivamente fosse così: d'altronde la sua SF è sempre stata sociologica e non tecnologica, che però stona. Curioso, per esempio, che gli abitanti che non emigrano indossano “costose braghette di piombo” quando, considerata la tecnologia disponibile, dovrebbero avere ben altri ausili anti-polvere... Non è prevista alcuna protezione per gli animali dalla polvere radioattiva: considerato che questi ultimi costano un occhio della testa, sembrerebbe ovvio inventare qualcosa, anche una sola frase ma non si evince nulla del genere. Verso la fine, quando cioè Rick arriva da Isidore per uccidere gli androidi che si sono nascosti a casa del “cervello di gallina”, sarà la figura del profeta Wilbur Mercier ad apparire come visione mistica, ma senza che l’autore spieghi come e perché, dal momento che appena qualche pagina prima mostrava che lo stesso Mercier era solo un attore di scarso talento. 
 
Pregi:


Lo stile è a conti fatti poco fantascientifico e molto “sociale”. I dialoghi sono verosimili (tranne alcune eccezioni), il linguaggio usato anche. Molto buona la complessità della  trama che non presenta punti di ombra ed eccellente la figura di J.R. Isidore, dal punto di vista umano. Buona anche la dinamica della storia, anche se oggi un romanzo del genere sarebbe forse considerato lento, cosa che non condivido giacché è molto piacevole da leggere e non annoia. Certo, non è il classico romanzetto fotocopia, non parla di mostri provenienti da universi paralleli e non spiega le tecnologie usate. Forse gli amanti dell'infodump scientifico a tutti i costi potranno storcere il naso a leggere dell'assenza delle loro amate descrizioni, ma poco importa. La capacità narrativa di Dick non sembra affatto limitata dall'infodump né dall'assenza di complicate quanto improbabili descrizioni tecniche. Le stesse informazioni che l'Autore usa per spiegare il mondo dei suoi personaggi non arrecano noia, ma anzi contribuiscono a ricreare il mondo di una realtà apocalittica. Ricordiamoci che Dick è stato il precursore del cyberpunk e che molti, a partire dall'osannato Gibson, devono ben più di poche idee al grande romanziere americano. Ma allora, queste benedette tecniche servono davvero a migliorare un romanzo oppure sono soltanto una moda? La risposta è una sola: ciò che serve è l'equilibrio, ma ciò che manca può essere compensato dal talento. “Ma gli Androidi sognano Pecore Elettriche?” è figlio di un periodo, ricordiamo che fu scritto nel 1968, assai attivo dal punto di vista dell’inventiva. Sbagliano coloro che si azzardano a definire questo libro come un esempio del passato. Anche perché la gran parte dei libri moderni di SF, Hard o meno poco importa, deve moltissimo a questi capolavori che non hanno nulla da invidiare alle trame ritrite di oggi.


Quindi:


Nonostante i difetti accennati, e nonostante, con ogni probabilità, Dick non conoscesse affatto regole, assenza di infodump, cambi di pov e il mostrato, “Ma gli Androidi Sogano Pecore elettriche?” ricorda, almeno a chi scrive, certi romanzi di atmosfera di H. P. Lovecraft. Dettaglio, questo, che fa dimenticare l’assenza di una tecnica raffinata. Io stesso, che non esito mai a studiare tecniche e tematiche di oggi per i miei nuovi romanzi, penso che l’eccellenza sia non quella di seguire in modo ossessivo le regole e le tecniche, ma di usarle con cognizione di causa senza mai trascurare la bellezza, la Poetica che è poi la vera eccellenza di questi romanzi. Perché è grazie alla perfetta armonia tra ispirazione artistica e tecnica che gli androidi, chi legge e chi scrive potranno continuare a sognare e , qundi, a riflettere.



Massimo Valentini

 

sabato 29 settembre 2012

Pensieri liberi


Ok, oggi avrei dovuto scrivere una delle mie solite recensioni ma a conti fatti, mi annoio un po’. Sì, d’accordo: il libro in questione è una merda. Voglio dire, non mi esalta. Scritto coi piedi. Raffazzonato. Stupido. Fèntasy (e ho detto tutto). Quindi non ne parlerò e invece inauguro un nuovo modo di fare post. Quello di farvi conoscere l’altro lato del Valentini-pensiero, quello scanzonato, cinico, simpatico (forse) e un tantino figlio di mignotta. Già che ci sono voglio anche informarvi che proprio ieri, in tutte le edicole italiote, è uscito il primo numero della rivista che concorro a scrivere anch’io: Voyager. Avete capito bene: la rivista ufficiale del programma di Rai due di Roberto Giacobbo. Figo, eh? Sono in redazione, quella della rivista, non del programma, preparo pezzi, controllo, riscrivo, faccio sezioni… si lavora, insomma. Un altro al posto mio avrebbe magari acceso le fanfare e dandosi un certo non so ché di Altissima, Levissima e Purissima aria da intellettuale sfigato avrebbe sciorinato per filo e per segno quanto è bravo. A me non me ne frega di farlo, se sono bravo o meno lo so da solo, e a conti fatti devono deciderlo gli altri. E poi detesto chi si vanta. Di solito, quelli che lo fanno sono degli idioti. Io cerco solo di lavorare al meglio; non so ancora se rimarrò nel progetto (dipende da molti fattori) ma al momento ne faccio parte. Amen.



Un’esperienza nuova per me che finora avevo svolto il lavoro del divulgatore in modo diverso. Un modo più libero, senza padroni, un cane sciolto che va in giro e osserva, prova, sogna e scrive. Beh, che ci volete fare, sono uno scrittore, mica Fabio Volo. Scrivere per Voyager è divertente, anche se le responsabilità sono tante, ma fa parte del gioco. Certo, a conti fatti, scrivo per un bel po’ di gente. Varie riviste, rispondo alle lettere, scrivo libri... Ricordo ancora quando cominciai a scrivere le prime volte. Ero al liceo, anzi, no: in Inghilterra per un viaggio studio, ma con qualche compagno della mia classe. Ovviamente lo studio era l’ultima delle preoccupazioni dei miei baldi amici. Erano andati per “le inglesi”, loro. In effetti, non se ne sono fatta nessuna (decisero di ripiegare sulle nostre compagne italiane). Io, invece, che ero fidanzato (a volte anch'io sono un bravo ragazzo) proprio non me ne fregava nulla né delle inglesi né delle nostre compagne. Rispetto a me, solitario per nascita e compagnone per diletto, loro erano scatenati. Bevevano, fumavano, facevano casino... Le loro stanze al college sembravano quadri naif o, se volete, l’ultima delle fogne. Io, invece, scrivevo. I miei compagni erano impegnati a studiare l’inglese (30 minuti ogni 24 ore, più o meno) fotografarsi le facce a vicenda, studiare le gambe delle ragazze (inglesi) che venivano ogni venerdì a pulire quella fogna di appartamento, cercare di farsele, fotografare loro il Lato B (ho detto Lato B? Scusate: volevo dire le chiappe) e gettare acqua sul gatto delle studentesse (italiane) del piano inferiore per attrarre l’attenzione delle suddette. Italiane che ovviamente erano andate li per gli inglesi e che invece anche loro se la facevano con gli italiani. Quando si dice che tutto il mondo è paese... Poi, un bel giorno, una delle studentesse italiche cominciò a fare flap flap con le ciglia verso di me. Ricordo quel che mi disse un certo Salvatore:


Lui: “Max, secondo noi dovresti darti una mossa.” E intanto si raspava il grugno con un rasoio. Peccato che la barba erano un ciuffo di peli qua e là.
Io: “E perché? Ho già la fidanzata.”
Lui: rasp, rasp “Vabbé però la tua ragazza è lontana e adesso sei solo. Mica puoi scrivere tutto il giorno. C’è quella che ti guarda: che aspetti?”
Io: “Tu hai la ragazza in italia? Non lo sapevo."
Lui: "Eeeeh, vabbé no, ma qui..."
Io: "Ma qui fai lo zerbino di quella cofana della terza F..."
Lui: rasp rasp “Sei uno sfigato!”
Io: “Sarà, ma io non mi ammazzo di seghe come fate voi.”
Lui: “Solo perché la tua ragazza è gnocca…”
Io: “Buone raspate, Salvatò!”
Ecco, più o meno queste erano le giornate ragion per cui feci i bagagli e tornai in italia. Una vacanza di merda, ma che è servita a farmi capire una cosa: che nella vita di ciascuno di noi ciò che siamo è sempre lì ad attenderci. Salvatore so che è diventato medico, è benestante e ha rilevato lo studio del Papi, pure lui medico. Io, invece, scrivo i miei libri e me ne frego di leccare a destra e a manca per far comprare qualche copia in più agli amici degli amici degli amici degli amici. Certo, anche il mio c.v. è invidiabile: sono stato qua, sono stato là, Antartide, Nuova Zelanda, Australia, A-stan e Bosnia. Scrivo, leggo, poi scrivo e ri-leggo. E, quando ero libero, non mi sono mai mancate le compagnie femminili. Forse, per gran parte delle persone, io sarei quel che disse Salvatore: uno sfigato. Forse. Certo, non navigo nell’oro, però me ne sbatto di tutto, tranne che della voglia di scrivere.

A volte qualche rifiuto devi prevederlo...
Oh, non importa cosa, basta che scriva. Perché solo così mi sento vivo, anche quando vorrei bruciare gli appunti di quei cazzo di libri per i quali getto sangue e follia, e diventare un norm come quel Salvatore lì. Che dirvi? Anche a me piacerebbero una villa, soldi e qualche mese trascorso senza fare una cippa in vacanza. Io invece sono spesso in bolletta, ma non mi raspo la barba e credo nel potere della penna e della libertà. Quella di fare come mi pare, quando mi pare e con chi mi pare, quella di vivere sempre sul filo del rasoio, sempre incontro al vento, anche se magari fuori piove. No, grazie, signori Salvatori delle mie ghette: non so che farmene delle vostre seconde scelte, delle vostre ville lasciate dal Papi e delle donne che ora avete, ma che forse un giorno conobbero me prima di voi. Se vado in giro, lo faccio per conoscere gente nuova, che magari possa insegnarmi qualcosa. Perché non esiste nulla al mondo che sia meglio della libertà di pensiero. Io sono nato per questo: libertà di pensiero, di scrivere, di essere. Anche se a volte neanch'io so il perché.
Massimo Valentini