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martedì 31 marzo 2009

Un omaggio a "Sull'Oceano del tempo"




Il racconto che leggerete oggi è stato scritto da Ivan Croce, mio amico, collega (è un bravissimo scrittore esordiente) e compagno di tante oniriche avventure sul pianeta Scrivere. L'ho letto tutto d'un fiato e lo posto con vero piacere. Il racconto è molto bello (ma da Ivan questo è scontato) e spero che piaccia anche a voi. Quanto a me mi sento lusingato di avere accanto persone magnifiche che con il delicato "L'albero" prima e con questo intenso "Canto della paradisea" ora, mi dimostrano la propria stupenda vicinanza.



Il canto della Paradisea




Ancora una volta visitai il Mondo dei Sogni, coi battiti del cuore che risuonavano come passi nelle tenebre. Quando varcai la soglia dell’onirico regno provai per l’ennesima volta la sensazione d’indossare un’identità che non mi apparteneva, solo per rendermi conto, l’istante successivo, che questa nuova interfaccia della mia anima mi si addiceva, al contrario, molto più della maschera che sempre indosso quando cammino nel Mondo Reale. Quella maschera ed ogni cosa che attraverso di essa avessi mai scrutato, me li lasciai alle spalle e all’esterno della sfera dei miei ricordi; perciò non mi si domandi chi mai io fossi nel regno della veglia, poiché più non lo rammentavo. Molti pensano che ai sognatori professionisti come me non accada mai di scordare la propria identità, ma posso assicurare che non è così. L’ultima cosa che ricordavo era il morbido letto in cui mi addormentai, e nient’altro, eccetto il contatto di qualcosa di soffice sulla mia spalla: ma che si trattasse delle bionde ciocche di una profumata amante che con me condivideva un sontuoso talamo circondato dagli arredi d’una lussuosa dimora, o il pelo arruffato della coda di un vecchio fedele compagno acciambellatosi al mio fianco sul modesto giaciglio d’una squallida soffitta, davvero non saprei dirlo. Quel che non avevo scordato, tuttavia, era la missione che mi proponevo di compiere nel corso del mio onirico viaggio: trovare il Signore e la Signora di un sogno che non mi apparteneva, ma che apprezzavo come una delle storie più belle che avessi mai conosciuto. Beninteso: a questo punto non si deve pensare che si trattasse di qualcosa che non avevo mai fatto prima, poiché la mia lunga esperienza di sognatore mi aveva permesso di inoltrarmi in molti dei sogni sognati da menti ben più profonde e luminose della mia, tanto che già innumerevoli volte avevo cavalcato il dorso di antichi draghi che volavano su nebbiose isole ai confini di fatati arcipelaghi, e ben conoscevo ormai i sentieri che solcano le profondità delle foreste popolate dagli elfi, così come le strade di oniriche città costruite con brillanti marmi colorati, ai cui moli attraccai dopo piratesche scorribande su mari tempestosi e gremiti di strane creature... Eppure questa volta sarebbe stato diverso, poiché il sogno in cui avrei cercato di inoltrarmi apparteneva in modo innegabile e peculiare – ed in tutta la sua potente e struggente intensità – soltanto alla Signora ed al Signore che l’avevano vissuto e plasmato con le loro menti e i loro cuori. E da dove avrei potuto principiare una simile ricerca se non dal luogo più consono? Decisi quindi di recarmi a Greenfield, e con la sola forza del pensiero – nella comoda maniera mediante la quale talvolta si viaggia nel Mondo dei Sogni – potei comparire tutt’a un tratto nell’amena cittadina. Devo ammettere, tuttavia, che fu una Greenfield dall’aspetto singolare quella che si presentò ai miei occhi: uno strano miscuglio di modernità e gradevoli atmosfere antiquate, come se parte della città fosse rimasta ai tempi dei secoli passati e si sovrapponesse curiosamente ad elementi tipici della vita odierna, come veicoli e passanti dall’aspetto indubbiamente contemporaneo. Via via che vagabondavo per le strade che conducevano verso quella che presumevo fosse la giusta direzione, questa sensazione si intensificò, e mi parve che l’aspetto degli edifici mutasse più rapidamente per assumere le sembianze di dimore cupe e dall’aria ostile... Non che fosse qualcosa di cui stupirsi: il sogno stava semplicemente reagendo alla mia presenza di intruso. Se infatti è vero che i sogni tendono sempre a cercare nuove menti in cui germogliare, a guisa di semi, a modo da aumentare le proprie probabilità di esistenza, è pur vero che sanno riconoscere coloro ai quali non sono appartenuti in origine e che con troppa leggerezza, e a volte senza averne il diritto, tentano di viverli. In fondo non era un caso se dopo il mio arrivo il tempo si stava rapidamente guastando e un plumbeo sipario di nubi era calato sul sole. La mia ricerca non durò meno di diverse ore, durante le quali non trovai alcun aiuto nelle confuse indicazioni stradali; gli sguardi torvi dei passanti, poi, bastarono a dissuadermi dal domandare informazioni a chicchessia. A quanto pareva gli stessi personaggi del sogno non avevano difficoltà ad identificarmi come un intruso. Nondimeno, alfine la mia ricerca ebbe successo: lievemente scostata dagli altri edifici divenuti ormai dimore ottocentesche, mi apparve improvvisamente la magione che andavo cercando, la casa ormai abbandonata in cui, molto tempo prima, avevano vissuto il Signore e la Signora del sogno in cui mi trovavo. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto rapidamente il cielo si stesse spegnendo e di come il crepuscolo fosse terribilmente puntuale. Con occhi incupiti dall’ansia scrutai l’abbandono che scuriva le antiche finestre e il denso pullulare d’ombre tra l’intrico di arbusti del desolato guardino. La ruggine sulle inferiate del cancello luccicava come sangue su vecchie lame, ma senza curarmene avanzai verso la soglia. Un corvo gracchiò tre volte mentre la gelida maniglia cedeva sotto la mia mano. Quando fui nel giardino mi resi conto che non avrei mosso un passo se non avessi lottato per scostare il solido fogliame color verde cupo di un enorme cespuglio. Ma i brividi mi graffiarono più dei rametti appuntiti quando mi ci addentrai. In un istante tutto mutò, in nome della gloria e dell’ineffabilità dei Sogni. Ero in un bosco, adesso, e le tremolanti ombre si erano alleate tutte insieme per formare i veli della notte. Mossi qualche passo con l’ausilio della fioca aura lunare. A volte non lo si nota, ma c’è qualcosa di ridicolo e patetico nell’uomo che si sforza di camminare dignitosamente quando ogni cellula del suo essere gli urla di correre sotto l’impulso del panico... ecco, quest’immagine si addice assai bene al modo in cui stavo avanzando fra i tronchi contorti di quella selva spaventosa. Le tenebre incominciarono a sussurrare, e legnose dita scrissero scricchiolanti parole nell’aria: “Intruso, intruso, intruso...” E quando alla traditrice coda dei miei occhi parve che le ombre si plasmassero in zanne, artigli e ali fatte della pelle della notte, non riuscii a trattenermi dall’urlare: “Voglio soltanto incontrarli!” La mia voce si spezzettò in striduli echi; “Anch’io sono un sognatore,” ansimai, “e conosco l’incanto dei sogni di Purezza e d’Amore!” Allora una civetta nascosta da qualche parte tra le fronde degli alberi rise con voce echeggiante, e non appena i suoi strilli si spensero le ombre ripresero a mormorare, questa volta in un profondo e sordo brontolio che ricordava il lontano rombare di tuoni. Corsi fino a sentirmi stremato, incespicando continuamente sul suolo aspro e buio, e rischiando ad ogni istante di sbattere contro i tronchi minacciosi. Quando i miei polmoni si arresero alla fatica mi fermai e chiudendo gli occhi poggiai la fronte contro la corteccia dell’albero che mi parve meno spettrale. La rombante voce delle ombre si innalzava ormai come l’urlo d’una tempesta, seguitando ad accusarmi di aver vìolato un sogno che non mi apparteneva. Ma ad un tratto, così come solo nel regno onirico potrebbe accadere, un suono che invero era il più flebile di tutti superò e sovrastò i rimbombi che scaturivano dalle tenebre e mi ristorò il cuore come il tepore di un focolare in una notte d’inverno. Era il canto di un uccello, le cui note flautate pulsarono nell’aria lindandola da ogni borbogliare di tenebra. Aprii gli occhi e mi avvidi di essermi fermato sulla riva di un meraviglioso laghetto fatto d’argento liquido e luccicanti scintille di stelle... o forse era solo il riflesso della luna piena sulle acque? Sollevando il capo a guardare la volta stellata notai, stagliata proprio al centro del viso d’oro bianco della luna, la sagoma della Paradisea dal cui becco socchiuso proveniva quel magico canto. Rapito, avanzai verso quel ramo sulla sponda opposta dello stagno, ma l’uccello smise di cantare e volò via nella notte. Sbattendo le palpebre abbassai gli occhi sui miei piedi che con uno sciacquio erano affondati fino alle caviglie, quasi fossi sbalordito di non poter camminare sulle acque... e quando rialzai il capo mi ritrovai nuovamente nel giardino della dimora abbandonata di Greenfield. Ero finito dentro a una fontana colma d’acqua piovana che si trovava a pochi passi dall’ingresso dell’antica casa. Con un sorriso eccitato mi fiondai verso il vetusto portone e lo spalancai incurante del buio che avrei trovato all’interno, per poi scoprire, una volta varcata la soglia, che le tiepide fiamme di un camino rischiaravano una sala assai più vasta di quando si sarebbe potuto immaginare dall’esterno. Il mio sguardo fu catturato dalla parete che mi si innalzava di fronte, decorata dal grande e lucido bassorilievo di un cigno dalla testa di donna. “Non è quello che cercavo,” pensai, “ma sono comunque sulla strada giusta. I sogni della stessa mente sono sempre collegati.” E dovetti sorridere con eccessiva boria, perché il volto femminile scolpito nella pietra sorrise a sua volta, ma in modo vagamente minaccioso. “Intruso,” mi parve di leggere sulle labbra di liscia pietra, mentre il sorriso svaniva dalla mia bocca. La porzione di parete tra il camino e la scultura si increspò come piombo liquido e poi si stirò nuovamente, liscia come cristallo. Oltre quello specchio che non rifletteva vidi un’immagine che, quantunque sfocata come attraverso una parete di ghiaccio, mostrava un uomo vestito di quella nobiltà che non traspare dagli abiti ma dall’animo. Inghiottii prima di balbettare: “Lord De Valois...” ma la figura alzò una mano per zittirmi.
“Vagabondo dell’onirico reame,” disse con voce limpida e profonda, “per quale motivo cammini sui sentieri che percorrono le lande degl’altrui sogni?”
Cercai di darmi un tono e mi inchinai nel modo più formale che mi riuscì. “Mio Lord, vengo da voi con il solo intento di ammirarvi in silenzio come un pellegrino al cospetto del suo tempio. Null’altro che questo.”
La sua voce si venò di sarcasmo; “E, di grazia, cosa ti induce a ritenere di essere degno di null’altro che questo?”
“Sono un sognatore!” esclamai con ridicola indignazione, “E mi dichiaro un seguace di questo sogno e un ammiratore di coloro che lo crearono!”
“E non sei forse anche un imbrattacarte, laggiù in quella finta dimensione che voi chiamate ‘Mondo Reale’? Non stai forse progettando di scrivere un racconto che narri di questo sogno?”
Trattenni il fiato. “Ma...”
“Come faccio a saperlo? Sei tu che hai voluto sognarmi a tutti i costi. Se mi stai sognando, vuol dire che ora sono nella tua mente.”
“Regalerò il racconto all’Autore,” dichiarai, “poiché ho l’onore d’averLo conosciuto e di poterLo chiamare amico!”
“E ciò ti dà anche il diritto di varcare il confine dei Suoi sogni fino al punto di incontrarne il Signore e la Signora?”
Scossi la testa sconsolato. “Vi prego, voglio soltanto vedervi...”
Mentre la sfocata immagine si dissolveva e la parete tornava ad essere un semplice muro di roccia, udii un’ultima eco di quella voce vibrante. “Già conosci la risposta alla tua richiesta.”
Annuii tra me e me. “Dopotutto, questo non è il mio sogno.”
Mi voltai ed uscii, richiudendo silenziosamente l’antico portone. Attraversai il giardino selvatico senza calpestarne alcuna pianta, e i cespugli parvero scostarsi per concedermi di andarmene. Quando mi richiusi il cancello alle spalle mi resi conto che ormai l’alba era prossima. Camminai fino alla riva del mare, evitando rispettosamente di recarmi sul famoso promontorio di Greenfield, ma fermandomi su una qualsiasi spiaggia solitaria. Osservai l’orizzonte dove la fatata sfera d’arancio del sole emergeva lentamente dalle quiete acque marine. Non avevo fatto caso ai gabbiani che si levarono in volo tutti insieme, e guardai con stupore lo stormo che si librava nel limpido cielo. Non potei impedirmi di sorridere quando scorsi una coppia d’uccelli che si allontanò dagli altri e, anziché puntare verso l’alba che ormai tutti osservano con noncuranza, si innalzò altissima nel cielo d’occidente, verso le ultime stelle che solo gli occhi dei veri sognatori possono vedere.














Ultima Thule: primo capitolo...






Questo è invece il primo capitolo del mio romanzo, "Ultima Thule". (ho omesso il prologo per ragioni di spazio). Se avete commenti da fare sono a vostra disposizione.




"Ultima Thule"



Primo capitolo

Non ho mai saputo perché alcuni facciano sogni più vividi della media. A me, per esempio, capita spesso di farne alcuni così intensi da provare l’impressione di assistere alla proiezione di un film estremamente realistico. E le sensazioni che provo quando sono in tali oniriche attività sono più profonde delle analoghe emozioni dei momenti di veglia. A volte capita che siano proprio i sogni a mostrarmi la strada verso un nuovo percorso schiudendomi spiragli che altrimenti non avrei osato ipotizzare. Così è stato, per esempio, quando decisi di andare in Antartide perché la mia decisione scaturì proprio da un sogno. Mi trovavo in una landa desolata dove il bianco aveva un candore mortale e dove tutto presentava proporzioni inumane e terrificanti. Un mondo dove il ghiaccio stendeva il suo dominio sul granito delle montagne le cui cime inviolate erano carezzate dai venti catabatici. Ricordo che mi svegliai tremando di una paura senza nome che mi lasciò fulminato da una strana eccitazione, una sensazione di dèjà-vu che mi sussurrava che avrei visto davvero quell’oceano di ghiaccio. All’epoca dei fatti che sto per narrare non avevo ancora raggiunto i 22 anni ed avevo subìto la perdita di una persona cara. Il mio solo desiderio era pertanto di fuggire dove nessuno, tra quanti mi conoscessero, avrebbe potuto ripercorrere le mie orme. L’arroganza della mia giovane età potrebbe forse costituire la base di una tale decisione, ma non fu la componente più importante. Probabilmente fu il mio senso di straniamento al mondo ed a tutto ciò che lo circonda a farmi propendere verso la volontà di partire, anche se ancora non avevo la più pallida idea di quale avrebbe potuto essere la mia destinazione. Così, quando mi presentai davanti al direttore del prestigioso Istituto Nazionale delle Ricerche, non sapevo ancora che avrei visto l’Antartide. Conservo un vivido ricordo delle emozioni contrastanti che provai quando mi fu detto che le sole spedizioni previste in quell’anno erano tre. Una prevedeva alcuni mesi da trascorrere presso l’osservatorio radioastronomico di Arecibo, un’altra in Medio Oriente sulle orme delle tribù del deserto ed una terza in Antartide. Tutte e tre prevedevano una durata massima, tra viaggio e studio, di sei mesi. La più allettante mi pareva senz’altro la terza opzione ma confesso che non mi sorrideva tantissimo l’idea di ritrovarmi a scavare ghiaccio tra i pinguini. Si trattava di raggiungere l’Antartide a bordo di una rompighiaccio per eseguire ricerche scientifiche e cartografiche del territorio. Il programma prevedeva anche la possibilità di raggiungere la vetta più elevata di quel continente, il Vinson, per eseguire carotaggi esplorativi. Il direttore mi mostrò alcune foto scattate nelle precedenti spedizioni che mostravano un curioso mondo primordiale che sembrava avere ben poca considerazione della parola “uomo”. Certo, le maestose immagini che vidi erano splendide, ma risvegliavano nel mio animo una paura ancestrale che non riuscii a definire nella sua completezza. Perchè una cosa è guardare delle belle foto standosene seduti su una comoda poltrona, un’altra è trovarsi al posto del fotografo in condizioni estreme. Mi fu chiaro fin dall’inizio che il mio interlocutore intendeva dissuadermi dal partire. Avrebbe significato restarsene per sei mesi lontano da tutto e tutti, dal mondo civile e dalle sue comodità, dalla sua gente, dalla sua banalità. La sua voce aveva un tono di sfida, come di chi è sicuro di poter scoraggiare senza fatica l’incauto di turno che volesse affrontare un viaggio del genere. Ma non aveva fatto i conti con il mio orgoglio che mi spinse ad oppormi fermamente ai suoi propositi. Il mio interlocutore mi soppesò per lunghi minuti prima di rispondere, accompagnando le sue parole ad un insolente gesto della mano. Poi, un po’ seccato dalla mia ostinazione a voler partire, mi porse un foglio pieno di richieste di idoneità fisica e mentale. Nel farlo mi spiegò che niente poteva essere lasciato al caso ed ai candidati si richiedeva un’eccellente capacità di autocontrollo in situazioni estreme, l’insensibilità al senso di vuoto tipico degli spazi aperti, una buona dose di inventiva e l’apertura mentale sufficiente a non perdersi d’animo neanche nei frangenti più rischiosi. Oltre a ciò servivano buone cognizioni in chimica, biologia ed una mezza dozzina di altre discipline. Stavo già pensando di fare dietrofront quando il Grande Capo pronunciò una frase che non mi piacque affatto: “Sei sicuro di potercela fare?”
Fu il suo tono sardonico e beffardo, più di qualsiasi altra cosa, a farmi convincere definitivamente. Lo guardai con un sorriso studiatamente asettico rispondendo in un soffio, con il cuore in tumulto, un “naturalmente!” appena intelligibile. L’altro mi squadrò attentamente per alcuni minuti poi finalmente si arrese dicendomi che mi avrebbe fatto sapere al più presto la sua decisione. Biascicai un grazie amorfo ed uscii dal suo ufficio dissimulando una curiosa sensazione di euforia mista a paura. A dire la verità non credevo affatto di poter essere selezionato per partire, ma ero almeno sollevato all’idea di tentare. Di certo, avrei dovuto convincere un bel po’ di gente delle mie potenzialità. Per i mesi che seguirono a quell’incontro trascorsi gran parte del mio tempo presso le biblioteche ed i laboratori del dipartimento di Chimica della mia università. Spesso chiacchieravo con vari docenti di tutte le incognite che avrei potuto incontrare nella terra dei ghiacci eterni, se fossi partito. Poco a poco, acquisii una consapevolezza nuova che dissipò la paura che fino ad allora avevo sempre provato all’idea di trovarmi in quelle terre ancestrali sostituendola con una illogica voglia di capire quali fossero i miei limiti. Allora come adesso, ero consapevole che è propria dell’animo umano la tendenza a scrutare nel profondo per capire come funzionano le cose e dissolvere l’oscurità della sua stessa ignoranza. Se non avessi dato seguito alla mia decisione non avrei perso ma neanche acquistato nulla perché la strada alle mie spalle già la conoscevo e non mi piaceva. Era fatta di superficialità ed egoismo, una strada dove non avevo più alcuna ragione di vivere. E quando, dopo molti tentativi, esami superati, richieste e una marea di scartoffie burocratiche fui finalmente informato dell’accettazione della mia domanda non provai più paura, ma un brivido di eccitazione. Nei miei sogni anelavo alla seduzione del vento antartico per avvertirne le gelide carezze che avrebbero dato nuova vita al mio cuore assopito. E quella vasta massa di ghiaccio, dove tutto è immoto da milioni di anni, cominciò ad esercitare un richiamo ipnotico sul mio animo che mi avrebbe portato in una nuova dimensione dell’essere. Davanti a me si stendeva la visione composta dall’estrema soglia di ghiaccio che avrebbe forse potuto dissipare quelle paure che provavo da tanto, troppo tempo.



Massimo Valentini

Alfa e Omega: "Sull'oceano del tempo"







....E questo è invece il primo capitolo del secondo racconto che compone "Alfa e Omega": "Sull'oceano del tempo." Buona lettura....



Sull’oceano del tempo


E’ difficile spiegare il motivo del fascino che il mare esercita sull’animo umano. Questa sconfinata distesa liquida attrae l’uomo ma contemporaneamente lo respinge, evocando sensazioni delicate o terrificanti che siano, sempre intense. Personalmente sono molto legata al mare, in special modo quando è in tempesta ed a volte può succedere che nei week-end molli la vita quotidiana per scappare verso l’azzurro universo e contemplarne la selvaggia e misteriosa bellezza. La mia mente si perde sulle sue onde tempestose, sulla sua superficie corrucciata dal vento mentre le procellarie ed i gabbiani eseguono le loro delicate piroette tra i flutti iracondi avendo come unica compagnia i miei sogni più nascosti. A volte mi accade di restarmene sola, in cima ad una scogliera che si protende per alcuni metri sull’abisso, apparentemente intenta a scrutare le acque ma avendo in realtà gli occhi chiusi perché in quei momenti non ho bisogno di aprirli per avvertire la maestosa melodia del mare. Eppure non sono mai stata una persona romantica o impulsiva quanto scettica e razionale per natura. Ma alcuni anni fa accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la mia visione del mondo, del tempo e della vita stessa. Il fatto in questione non avvenne qui, tra le prosaiche strade e gli enormi edifici di New York, ma in una modesta cittadina adiacente al mare di cui gran parte delle persone non ha praticamente alcuna cognizione. Con il senno di poi potrei agevolmente catalogare ciò che è avvenuto come appartenente al mondo dei sogni più vividi che mente umana possa concepire, ma ci sono dettagli e ricordi che mi fanno capire quanto la vicenda che ho vissuto non possa essere limitata entro confini tanto evanescenti. Essa esiste più che nella mia mente, nel mio cuore ed ha fatto di me ciò che sono: una donna curiosa ed aperta a nuovi piani dell’essere e ai sogni. Ma forse è meglio che proceda con ordine. Mi chiamo Leyla Blueland e faccio la giornalista per il Big Apple Time, un noto quotidiano di New York. Sono sposata da quattro anni con Max Steele, reporter per l’Advertiser, un giornale concorrente ma facente parte dello stesso gruppo editoriale. Quando avvenne l’evento che sto per narrare io e Max non ci conoscevamo ancora ma, in un certo senso, fu proprio grazie a ciò che avvenne nello sperduto villaggio di Greenfield, nel Maine occidentale, che vennero gettate le basi per la nostra unione. Come ho già detto ciò che accadde nell’isolata cittadina che avevo intenzione di visitare potrebbe essere il risultato dello stress originato dai mille impegni della vita moderna: ancora oggi se ripenso a tutta la vicenda devo crederci per non pensare ad essa come a un sogno molto vivido e nulla più. Eppure, quando il mio sguardo si posa sulle onde dell’oceano per contemplarne la selvaggia potenza, ciò che credevo un sogno svanisce come la nebbia del mattino ed i ricordi si affacciano prepotenti nel mio cuore per ricordarmi che esistono, che non sono stati ombre della mente. Perché avevo scelto proprio Greenfield, una zona isolata e certo poco attraente per il turista medio? La risposta è da ricercare nel mio carattere, da sempre affascinato dalle storie raccontate accanto al fuoco e dal mistero. Avevo appena 24 anni e un’insopprimibile passione antiquaria che mi aveva già portata in giro per paesini il più possibile isolati, posti dove il turista non andrebbe mai perché troppo scomodi o all’apparenza noiosi che per me rivestono una profonda attrattiva. Se poi da queste parti c’è anche il mare allora è impossibile che possa restarne per troppo tempo alla larga. Spulciando tra le carte di famiglia avevo appreso dell’esistenza di certe lontane parentele di cui fino ad allora non avevo saputo assolutamente niente. Mia madre non me ne aveva mai parlato e quando trovai i documenti e le carte nella polverosa soffitta, assunse una strana espressione di timore a mio giudizio assolutamente misterioso. Mi parlò di una strana storia fatta di credenze e dicerie su persone che si diceva fossero in combutta con strane entità nei primi anni del 1920. Tutte sciocchezze, certo, ma che nella mia razionale testolina si spiegavano con quelle assurde credenze ancora profondamente radicate in tante zone di provincia. Mia madre, donna pratica e schietta, mi mise in guardia dall’idea di recarmi sul posto per saperne di più limitandosi ad asserire, in verità in modo alquanto sibillino, che i personaggi in questione non godevano dell’incondizionato rispetto della popolazione del paese e che dunque un mio coinvolgimento nella faccenda poteva assumere un aspetto non propriamente gradevole. Inutile aggiungere che il viaggio mi attirava profondamente. La mia famiglia dovette abituarsi all’idea e devo dire che, vista l’inutilità del loro tentativo per convincermi del contrario, mi diede tutto l’aiuto possibile. Fu così che quattro giorni più tardi acquistati un giaccone pesante, pantaloni in lana grezza, robusti scarponi per escursionisti e razzi da segnalazione. Tutta roba che si aggiunse alla già nutrita attrezzatura che mi aveva accompagnata nel mio girovagare per posti e zone caratteristiche. Quando lasciai New York il mio lavoro era momentaneamente finito e l’inchiesta sulle grandi multinazionali faceva bella mostra di sé sul tavolo del mio direttore. Avevo impiegato quasi un anno per finirla, ma ne ero soddisfatta e, soprattutto, lo era il mio capo. Così non fu difficile farmi concedere qualche giorno libero e un bel mattino sistemai la questione con il mio editore, rassicurai la famiglia e salutai gli amici. Organizzare la spedizione di una sola persona è semplice: sistemi la tua roba, saluti la famiglia, e parti. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno i miei mi accompagnarono all’aeroporto dove salii sull’MD-80 che mi avrebbe portata sulla costa occidentale. Da lì, dopo una notte di riposo, avrei dovuto proseguire in macchina. Il viaggio fu noioso, ma non quanto il tragitto che dovetti compiere, al volante di una “Saturn” non in ottime condizioni, fino a Greenfield. Non incontrai molte strade asfaltate cosicché fui costretta ad affrontare zone un po’ impervie. Molte strade erano poco più che sentieri tracciati nei boschi e ingombri di detriti e avvallamenti vari. Per fortuna la segnaletica era piuttosto precisa e mi permise di non perdermi tra le tante stradine che costeggiano il paese. Qua e là mi capitò di costeggiare alcune zone abitate e tre o quattro volte sfilai davanti a bellissime ville che risalivano agli inizi del diciannovesimo secolo. Era una giornata molto mite e soleggiata: un tempo ideale per viaggiare in auto. Quando arrivai a Plum Island il paesaggio cambiò e gli alberi ed i boschetti che avevo incontrato soltanto pochi chilometri prima lasciarono il posto a strisce di sabbia sconfinata e deserta. Solo l’azzurro dell’oceano, così carico da sembrare dipinto, dava un tocco di vita ad un paesaggio dal carattere noioso e solitario. Lasciai la provinciale prima di mezzogiorno ed imboccai una strada secondaria che, costeggiando l’Atlantico, mi avrebbe portata verso la mia destinazione. Greenfield mi apparve quasi all’improvviso dopo una stradina abbastanza dura e fu con vero sollievo che imboccai il corso principale, ingombro di auto, che divide letteralmente in due la zona. Le insegne dei negozi oscillavano pigramente nella brezza del pomeriggio, tanto balsamica quanto gradevole, che spirava dal mare con costanza e continuità matematiche. Le case, tutte basse e nel tipico stile dei primi del novecento, davano all’insieme un tocco fiabesco di un luogo uscito per incanto dal passato, indifferente allo scorrere del tempo ai suoi confini, tempo che non ne intaccava minimamente l’aura di maestosa antichità. I giardini erano in genere ben tenuti, le aiuole rigogliose, tutte delimitate dalle staccionate in legno dipinto di bianco, i viottoli ed i marciapiedi senza un filo d’erba fuori posto: il panorama nel suo complesso era preciso e piacevole da osservare. Per un momento mi chiesi se, invece che in un tipico paesino dell’America meridionale, non fossi finita per errore in qualche cantone svizzero non segnato dalle carte. Persino il traffico, teutonicamente ordinato, era anni luce lontano dal caotico guazzabuglio di New York e non solo per il volume incomparabilmente minore. Anche gli abitanti mi parvero all’altezza della loro cittadina, in quanto chiunque incontrassi dispensava allo stesso tempo informazioni e gentilezza. Seppi così di alcune zone molto caratteristiche di Greenfield e che valevano almeno una visita. Esse erano la vecchia fabbrica del pesce, costruzione pittoresca e affascinante con i suoi mille comignoli ed i mattoni lastricati bianchi nel più puro old-style, il Passo del Salmone al Wild River, un fiume piuttosto selvaggio che attraversa l’estremo nord della cittadina e la curiosa immagine dell’ “Osservatore dell’Infinito”, un statua costruita sulla sommità di uno strapiombo da brividi all’estremo nord del porto. Grazie alle indicazioni dei passanti seppi anche il nome dei tre soli alberghi della città, ciascuno a suo modo caratteristico. Se il primo subiva l’invadenza tipica delle grandi metropoli con tutti i relativi agi e difetti, gli altri erano più “normali” ma era il terzo che mi attirava di più. “L’Onda perfetta”, così si chiama il locale, era una pensioncina a conduzione familiare dove la cucina era ottima, il trattamento buono ed i prezzi modesti. Situata quasi a ridosso del porto, somiglia dall’esterno ad una di quelle casette delle bambole che tanto avevo amato da bambina. Completamente costruito in assi di legno a loro volta solidamente fissate ad una base in mattoni bianchi, l’edificio presentava un ingresso principale a pianta quadrata, un giardino molto grande disseminato di rose e piante basse, alcune sedie a sdraio disposte strategicamente per garantire agli eventuali ospiti la brezza o l’ombra a seconda del momento, alberelli così dritti e snelli da sembrare in plastica e deliziose tendine bianche che facevano capolino dalle finestre. Quando entrai vidi un ambiente lindo e pulito, reso ancora più gaio dalla luce che entrava a fiotti dalle finestre. Mi resi ben presto conto che al pianterreno non c’erano altre stanze fuorché quella, abbastanza accogliente da servire da sala da pranzo, cucina e legnaia. Un enorme caminetto, deliziosamente rifinito con decorazioni che richiamavano scene di caccia alla balena, troneggiava al centro dell’ambiente. Accanto ad esso era sistemata con millimetrica precisione una grossa quantità di legna da ardere. Più in là, una mezza dozzina di tavolini erano già apparecchiati con un gusto semplice ma piacevole. Davanti a essi troneggiava un bancone in legno laccato di bianco, dietro il quale una donna di una certa età, ma certamente non anziana, stava lavando velocemente qualcosa nell’acquaio. La sua matura bellezza era evidente, ma faceva immaginare una giovinezza in cui il suo aspetto doveva essere stato altrettanto invitante. Mi salutò con un lieve inchino, come si usava fare agli inizi del ‘900, trovandomi un tantino in imbarazzo: “Buongiorno! – Esordii – la porta era aperta e così…”
“Ha fatto benissimo! Sono Liira Finetti, proprietaria di questa pensione. In cosa posso esserle utile?”
“Vorrei una stanza!” Dissi senza convenevoli poi, quasi a scusarmi di essere stata troppo diretta, chiesi: “Lei è italiana?”
“Da molte generazioni. I miei antenati vennero qui oltre trecento anni fa. Pare che il posto piacesse molto, la gente accoglieva bene i forestieri e così decisero di restare. Lei invece di dov’è?”
“New York! Sono qui per acquisire informazioni genealogiche.”
La donna mi guardò un secondo poi timidamente si fece avanti: “Beh, se mi dice di che si tratta forse potrei aiutarla io. Da queste parti, come immagina, è difficile non conoscere molta gente…”
La tipica diffidenza newyorchese mi tenne in scacco per alcuni secondi, pensierosa, ma poi il mio carattere naturalmente esuberante ebbe la meglio: “Sono qui per notizie su Maximus e Leyla De Valois di cui ho trovato scarne informazioni nella soffitta della mia casa natale. Le informazioni genealogiche e le vecchie storie sono la mia passione e mi piacerebbe saperne di più.”
La donna mi guardò con uno sguardo attento, tra il diffidente e il curioso, ma quando tornò a parlare lo fece con uno smagliante sorriso a trentadue denti: “E’ buffo che sia venuta proprio qui da me a chiedermi informazioni su Maximus e Leyla!” Sbottò in una risata garrula e aperta, poi: “Ma io sono una sciocca, mi scusi! Lei non può certo sapere. Le persone di cui chiede sono al centro di una bellissima leggenda.”
Fui piuttosto stupita dalle sue parole e cominciai a fare alla mia ospite molte domande, ma quella rifiutò con un elegante quanto risoluto diniego del capo: “Prima le faccio vedere la sua stanza! – disse – e poi stasera, durante una buona cena, le racconterò ciò che so di una storia che la interesserà sicuramente!”
Visto che non potevo fare altro, assentii. La mia ospite mi aiutò a portare di sopra le mie due valigie, spiegandomi che, poiché eravamo nella bassa stagione, avrei potuto scegliere la stanza che più mi piaceva. Mi guidò quindi per una rampa di scale piuttosto strette costruite con pesanti assi di pino sempre verniciate di bianco. A quanto pare il bianco sembrava la tonalità predominante a Greenfield. Alla fine della rampa ci ritrovammo in un corridoio rivestito con una carta da parati decisamente pesante. Notai che vi erano solo quattro stanze. La mia ospite volle mostrarmele tutte ed io ne scelsi una non troppo grande ma realmente deliziosa. Osservandola, confermai con me stessa che quella pensione era davvero una casa delle bambole. Come spiegare altrimenti un letto in ferro battuto decorato con motivi naif, una cassettiera bianca con i cassetti rosati, due comodini della stessa tonalità e delle tendine in pizzo che ornavano finestre molto civettuole con i loro archi vintage? Mi sembrava che da un momento all’altro sarebbe sbucata fuori Sissi o la Bella Addormentata… Solo il bagno, cui si accedeva tramite una porticina dai motivi floreali incisi sul legno, era più “normale”, anche se piuttosto angusto:
“Pensa che possa andare bene?” Disse allora la padrona di casa:
“Benissimo, grazie!” Annuii mentre posavo le mie valigie sul letto che scricchiolò leggermente:
“E’ affamata?”
“Molto! È da stamattina che non mangio un boccone.”
“Posso darle solo il piatto della casa. Non c’è molta scelta qui: oggi c’è stufato di cernia con funghi della zona.”
Risposi che mi andava bene e, dopo avermi informata che si cenava alle venti, la mia ospite mi lasciò sola nella stanza. Disfeci le valigie e sistemai la mia roba con tutta l’attenzione che la stanchezza del viaggio mi aveva lasciato, poi mi gettai sul letto, pensierosa. C’era un ché d’indefinibile nella padrona dell’“Onda perfetta” che sulle prime non avevo notato. Non era repulsione, ma semmai uno strano interesse e curiosità come se mi aspettassi istintivamente qualche rivelazione. Sul momento non sapevo cosa pensare di questa sensazione ma in seguito, quando venni a conoscenza di certi eventi, avrei capito che il mio istinto non si sbagliava. La situazione, tuttavia, mi elettrizzava. Alle otto precise ero già seduta ad un tavolo (scoprii ben presto di essere la sola ospite della pensione), davanti ad un piatto di stufato fumante ed in procinto di conoscere i primi dettagli di una storia che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia vita.

Alfa e Omega: "Il cigno"







Cari amici, rieccomi a voi con un assaggio delle mie prime pubblicazioni. In questo post ho deciso di pubblicare il primo capitolo de "Il cigno" che a sua volta compone la prima parte del primissimo libro che ho dato alle stampe. Se vi va leggetelo e ditemi cosa ne pensate...



IL CIGNO


Alcuni anni fa accadde qualcosa che cambiò profondamente la mia vita e la conseguente visione che avevo del mondo. Ripensandoci ora, fu un periodo piacevole anche se all’epoca dei fatti che sto per narrare non lo sapevo ancora. Mi chiamo Richard Joyce e lavoro come reporter alla Fashion, nota rivista di moda la cui sede si trova nella caotica città di Boston. Allora mi dilettavo anche come consulente, attività che mi piaceva molto perché spesso mi portava in giro per il mondo a caccia di scenari suggestivi dove ambientare i servizi in favore di molti prodotti di consumo. La sola nota stonata era il rapporto con il mio capo, una donna autoritaria e decisa, che se da un lato apprezzava il mio operato non condivideva però la maggior parte delle mie idee. Per questo motivo molti furono sorpresi quando un anno fa decidemmo di stare insieme, conoscendo la diversità dei rispettivi caratteri. Ma forse è meglio che proceda con ordine. In quel periodo avevo terminato una serie di servizi sui posti più piacevoli dove recarsi in villeggiatura ed ero molto stanco. Lavorare a stretto contatto con le ragazze che appaiono sulle copertine patinate non è sempre bello come si può pensare. Personalmente non me ne sono mai stato sdraiato su un’amaca con una noce di cocco nella destra e del succo d’ananas nella sinistra: questa è roba per i turisti, non per gli addetti ai lavori. Il fatto è che noi lavoriamo per far divertire gli altri o, come nel mio caso, per mostrare le tendenze del momento in fatto di costume e modi di vivere. Avevo appena finito di lavorare ed ero tornato a casa dopo un mese di fatiche. Mangiavo poco e male, riposavo saltuariamente e, dulcis in fundo, avevo affrontato un viaggio di ritorno in cui l’aereo aveva ballato per tutto il tragitto a causa del cattivo tempo. Decisi perciò di chiedere a Sharon, che allora era il mio capo, qualche giorno per me, considerato anche l’ottimo gradimento del mio servizio. Dovetti affrontare una vivace discussione ma alla fine la spuntai. Scegliere la meta delle mie vacanze si rivelò tutt’altro che facile. Non volevo andare in uno dei posti che frequentavo per motivi professionali. Questo perché nei villaggi vacanze le compagnie turistiche organizzano tutto, compreso il numero delle volte che si può andare in bagno. Le località in questione poi, a prescindere dal posto, sono identiche fra loro: le palme a destra, le strutture alberghiere a sinistra, escursioni da (finto) brivido in mezzo e le classiche ragazze siliconate infilate lì per motivi scenografici. Per quanto mi riguarda preferisco spendere i miei soldi in posti più semplici, che magari ad altri potranno apparire monotoni, ma che per il sottoscritto sono sicuramente più genuini. Fu così che, dopo aver ponderato bene la questione, la mia scelta cadde su un luogo indicatomi da alcuni miei amici, fanatici di alpinismo, che avevano fatto escursioni in un paesino semisconosciuto di nome Nederland. Conoscendo il mio interesse per l’archeologia m’informarono dell’esistenza di uno strano rudere, situato nella valle che circonda il paese, che presentava, su una parete rivolta a nord, la curiosa immagine di un animale mitologico che non avevano saputo identificare per via della distanza. Sembra, infatti, che gli abitanti del luogo non amino andare nella zona dove sorge il rudere né portare i pochi turisti fin lassù a causa di un’antica maledizione. Ho sempre amato i miti e i racconti bizzarri per cui la faccenda mi sembrò interessante, anche se i miei amici si mostrarono un tantino perplessi quando annunciai loro di voler andare a Nederland per qualche giorno. Dissero che non valeva la pena affrontare un viaggio fin lì, considerata la distanza e la scarsità di strutture adatte a soddisfare un minimo di comodità elementare, ma insistetti e li convinsi a spiegarmi bene la strada per raggiungere il paesino. Mi rivelarono ciò che sapevano, pur con una certa esitazione, e mi feci consigliare sull’attrezzatura che avrei dovuto portare con me. Il giorno seguente comprai due paia di pantaloni pesanti, una giacca a vento imbottita, un sacco a pelo impermeabile e robusti stivali per escursionisti. Completavano la mia attrezzatura una buona dotazione di razzi da segnalazione che possedevo già. Il tardo pomeriggio dello stesso giorno caricai i bagagli sul mio fuoristrada e partii. I miei amici mi seguirono con la loro auto finché non fui capace di cavarmela da solo. Purtroppo le strade asfaltate che incontrai sul cammino non furono un granché e per giunta poche, cosicché fui costretto ad affrontare zone difficili anche per la mia fuoristrada. Molti sentieri erano letteralmente tracciati fra due file di sequoie imponenti che contendevano lo spazio ad alberi secolari le cui ombre gettavano tenebre e umidità sul terreno dove crescevano rampicanti d’ogni genere. Qua e là lepri ed altri roditori correvano spaventati al mio passaggio o si rintanavano nel cavo di qualche albero. Osservai scene simili per un paio d’ore finché, con la schiena provata, scorsi un cartello indicante il paese in questione: era ora! Mi restavano pochi galloni di nafta nel serbatoio, anche se potevo comunque contare sulle taniche di riserva nel bagagliaio. Quando entrai nella cittadina scoprii subito la strada principale larga e tranquilla, con poche auto posteggiate ai lati. Le insegne dei negozi dondolavano pigramente appese sulle aste, in balìa di ogni alito di vento proveniente dalla valle nella quale è incastonato, come una pietra di quarzo, il centro abitato. Nederland è anche il nome della cima più imponente di quella zona, un’immensa massa di pietra e vegetazione lussureggiante senza sentieri o alberghi, posta a nord della cittadina. Notai che le auto erano scarse e tutte non molto recenti. Sicuramente Nederland può rivelarsi un posto idilliaco per un collezionista di vetture d’epoca. Anche i passanti erano pochi, ma non scorbutici. Fu grazie alle loro indicazioni che riuscii a raggiungere la locanda consigliatami dai miei amici. Il falconiere, così si chiama il locale, è situato quasi al centro del paesello e dall’esterno somiglia molto a un castello in miniatura, grazie anche al modo in cui è costruito. Imponente e massiccio presentava finestre e ingresso principale ad arco, secondo i dettami gotici che trasparivano da ciascuna delle pietre scure con le quali è costruito. Questo, unitamente al clima umido e piovoso della zona, gli conferisce un aspetto vagamente sinistro, sensazione che risulta più accentuata sul far della sera. Appena arrivai, il cielo si era fatto plumbeo a causa di una nebbia invadente che proveniva direttamente dalla valle. Posteggiai l’auto davanti alla locanda ed entrai per chiedere al proprietario se fosse disponibile una camera. L’interno della costruzione era scuro e affumicato, i mobili pochi e massicci, con scarse concessioni al gusto e molte alla praticità. L’ambiente era comunque abbastanza spazioso, molto di più di quanto dava a intendere guardando la locanda dall’esterno. Al pianterreno non c’erano altre stanze fuorché quella, spaziosa quanto bastava per servire da legnaia, sala da pranzo e cucina. Una grossa catasta di legna da ardere era ammonticchiata accanto a un imponente caminetto in pietra grezza. I tavoli costruiti con robusto legno di pino, erano tanto rozzi da sembrare squadrati unicamente con un’ascia ben affilata. Davanti a essi troneggiava un bancone fatto del medesimo materiale, dietro il quale un uomo tarchiato e taciturno puliva un bicchiere con un panno. Non mi degnò di un’occhiata e tuttavia mi chiese:
«Di dove siete, amico?»
«Boston!» Risposi io, «Ho deciso di passare un po’ di tempo qui da voi tanto per ritemprarmi un po' dallo smog cittadino!»
Cercai di essere il più gioviale possibile ma né quello, né i presenti sembravano venirmi incontro. Ho già detto che c’era qualcuno nella locanda; aggiungerò che si trattava di due uomini, seduti uno di fronte all’altro, che mangiavano una generosa porzione di quello che sembrava cinghiale arrosto. Dimostravano un considerevole appetito e, ogni tanto, trangugiavano della birra scura da un enorme boccale in comune, posto al centro del tavolo. Li stavo guardando, quando una voce imperiosa mi fece voltare, era di nuovo l’oste:
«Siete provvisto di bagagli?»
«Ho due valigie nell’auto, qui fuori.»
«Beh, non crederete che vi aiuti a scaricarli!»
«No di certo!» Ribattei ironico e tornai fuori a prenderli. Mentre li portavo dentro cominciai a riconsiderare l’idea di tornare in uno di quegli alberghi fatti con lo stampino che frequentavo per lavoro. Quando posai i bagagli, il padrone mi mostrò un grosso e polveroso registro, invitandomi a firmare. Ribattei che volevo vedere la stanza, guadagnandomi un’occhiataccia da parte sua e un mugugno da parte dei due uomini alle mie spalle, che certo avevano occhi e orecchie puntati nella mia direzione:
«Nessuno si è mai lamentato delle mie stanze, amico, ma venite: ve ne renderete conto voi stesso».
Mi guidò per delle scale molto robuste, costruite anch’esse con pesanti assi di pino. Il corridoio dove sbucammo era tetro, ma ciò era dovuto alla presenza di due sole lampade per l’illuminazione, per giunta abbastanza fioche. Dopo aver percorso alcuni metri, aprì la porta di una stanzetta pulita, dalle pareti decorate con una carta un po' scura ma non opprimente. Evidentemente, le tinte scure erano dominanti, da quelle parti. Nella stanza trovai una massiccia cassettiera sovrastata da una lampada a petrolio, non saprei dire se funzionante o meno dato che il posto era ovviamente fornito di elettricità. Il letto, davvero imponente, era affiancato da un comodino spartano nella sua semplicità, ma adatto allo scopo per cui doveva servire. Una logora poltrona in cuoio era sistemata davanti a un caminetto, la sola fonte di riscaldamento della stanza. C’erano poi due finestre, dai vetri molto spessi, che davano sulla piazza del paese. Ad un lato notai un bugigattolo che serviva da bagno, con una doccia e i servizi igienici concentrati in uno spazio talmente esiguo che sarebbero andati stretti anche ai sette nani:
«È una stanza un po' limitata», Disse la mia guida, «Ma dovrete adattarvi: non ho altro. Pensate che vi possa andare bene»? Pronunciò queste ultime parole con una certa ironia che finsi di non capire:
«Sono una persona abbastanza adattabile e penso che vi starò molto comodo». Ribattei, posando nel contempo le mie valigie sul letto che scricchiolò leggermente:
«Siete affamato»?
«Molto… È da stamattina che non mangio un boccone!»
«Posso darvi solo il piatto della casa. Non c’è molta scelta qui: oggi c’è arrosto di cinghiale.»
«E della birra»!
L’uomo mi rivolse uno sgangherato sorriso dicendo che me ne avrebbe servita almeno un paio di litri:
«Torniamo di sotto, intanto»! Concluse e ritornò alla scale che gemettero sinistramente sotto il suo peso. Mentre scendevamo gli chiesi qualche notizia sul paese e sulle foreste limitrofe. Quello che mi disse confermò le parole dei miei amici sulla cordialità del posto ma, quando accennai alla valle, mi parve che il locandiere si rabbuiasse e preferisse non rispondere. Non proseguii, avrei avuto occasione più tardi di tornare sull’argomento. Ora mi importava di più far lavorare le mascelle. Sedetti a un tavolo vicino al fuoco ospitato nel grande caminetto, dove un arrosto girava lentamente sullo spiedo emanando un aroma eccellente. L’oste mi portò un piatto e un boccale identico a quello dei due compari che erano ancora intenti a far onore al loro pasto. Mentre il padrone tagliava una porzione di carne, mi dedicai alla birra. Il sapore era un po' acidulo e non mi parve così buono come mi era stato detto. L’arrosto era invece ottimo, tanto che ne chiesi un’altra porzione che mangiai di gusto assaporando ogni boccone come se non avessi toccato cibo da un mese. Soddisfatto l’appetito e ripulito di conseguenza il piatto, tornai alla carica sull’argomento precedente e chiesi all’oste se fosse possibile, per il giorno dopo, trovare una guida che mi potesse guidare nella valle verso la cima del Nederland. Mi sembrò che questa richiesta lo innervosisse, infatti mi squadrò da capo a piedi con l’aria arcigna:
«Perché volete andare al Nederland»? Il timbro della voce era pesante e scortese:
«Ho solo intenzione di fare un po' di escursionismo»! Spiegai, «Alcuni miei amici mi hanno detto che esiste una casa, nella valle, che reca una strana immagine sulla parete nord. Sono un appassionato di antichità e mi piacerebbe visitarla.»
«Non è posto per gli stranieri». La voce, profonda e sospettosa, proveniva dalle mie spalle. Mi voltai e vidi i due uomini di prima fissarmi in un mondo che non mi piacque affatto:
«Cosa c’è che non va»? Dissi, «Credete forse che potrei provocare un incendio o arrecare danni»?
Le mie parole dovettero divertirli, perché si guardarono a vicenda con l’espressione divertita. Da parte sua il padrone non proferì parola e continuò a pulire alcuni bicchieri con un panno sporco di vino:
«Non ci hai risposto»! Esclamò quello più alto e robusto.
«Ho detto che m’interessa l’escursionismo, nient’altro. Non so niente dei vostri problemi e non ne voglio io»!
«Hai sentito John»? Disse in tono canzonatorio quello basso al suo degno amico: «Il tizio qui non vuole grane»!
«Beh, invece le hai trovate»! Bofonchiò l’altro venendomi incontro con i pugni serrati. Mi alzai di scatto dal tavolo, facendo volare le posate sul pavimento, ma non lo feci abbastanza rapidamente per evitare un pugno che mi gettò a terra. Un liquido caldo, dall’odore fin troppo riconoscibile, cominciò a scorrere sulla mia guancia destra: capii di avere un bel taglio e questo mi fece davvero arrabbiare. Per ricambiare la cortesia sferrai un diretto allo stomaco del mio assalitore, quello più basso, seguito da un altro alla mascella. Con un gemito l’uomo si accasciò contro uno dei tavoli distruggendolo, ma l’altro mi sferrò un gancio in piena faccia, facendomi cadere sul pavimento, proprio accanto al camino. La testa mi doleva e ogni parola che veniva pronunciata da quei due mi rimbombava da una parte all’altra del cervello. Qualcuno mi afferrò per il bavero della giacca, ma riuscii a fermare il suo braccio in tempo per dargli un’altra carezza sul grugno. L’uomo arretrò, stordito, ma non cadde. Mi stavo preparando ad aiutarlo io ma il suo amico fu più veloce di me e mi spedì nel mondo dei sogni con un pugno bene assestato. Riuscii appena a sentire queste precise parole:
«Sta’ lontano dalla casa del cigno o te ne pentirai»! Poi tutto cominciò a girare e io sprofondai in un pozzo nero e senza possibilità di uscita.


Massimo Valentini


sabato 28 marzo 2009

"L'albero", racconto di Antonella




Benvenuti in questo post dedicato ad un racconto scritto da una bellissima persona che si è ispirata ad uno dei racconti contenuti nel mio "Alfa e Omega". A parte l'onore che mi è stato fatto scrivendolo, non voglio aggiungere nulla alla delicatezza di questa valente giornalista che me lo ha dedicato. Solo una cosa vorrei dirle: TI ADORO!


Ecco, di seguito, il racconto....



L’albero









Non so ancora spiegare cosa realmente mi spinse a compiere il gesto che compii nell’aprile del 1906. Che si trattasse di amore, disperazione o entrambe le cose, poco importa ormai. So per certo invece che di quella decisione non mi sono mai pentita e che a cambiare la mia vita fu il più assurdo dei destini che mi fece imbattere, in un dì come tanti, nell’albero di ciliegie più vivo che avessi mai visto. Sì, proprio un vecchio albero di ciliegie che, posizionato su di una collinetta quasi inaccessibile, per tanto tempo è stato il mio fedele e unico confidente. E quel grosso arbusto che dava i frutti più buoni che avessi mai assaggiato, non protestava mai nonostante gli involontari dispetti che gli facevo arrampicandomi sui suoi rami. Era solitario, non parlava ma ascoltava, e spesso attraverso i suoi fiori in primavera regalava un canto melodioso, un piacere per le orecchie di chiunque anelasse la pace. La prima volta che mi trovai al suo cospetto fu una piacevolissima casualità. Passeggiavo senza fretta nel boschetto vicino al paese di Silverland nel quale mi ero trasferita da pochi mesi. Sbirciavo nei posti più improbabili e curiosavo alla ricerca del luogo perfetto dove poter passare le poche ore di riposo dopo i pesanti lavori nella fattoria dei Miller, i più ricchi e arcigni proprietari terrieri della zona. Da loro ero stata assunta per badare alla casa ma in realtà l’obiettivo che si erano prefissati era ben altro. Solo dopo aver accettato i pochi spiccioli che mi spettavano mensilmente, infatti, mi accorsi che cercavano una moglie per il figlio Greg, l’ultimo di sette, il preferito, che soffriva di improvvisi attacchi d’ira. Era tutt’altro che un tipo raccomandabile, mentre al contrario era superbo e spesso violento e, maledetta me, pare avesse visto nei miei modi il suo ideale di donna. Fu proprio il vecchio Miller in persona, il nonno, a chiedere notizie su di me al mio arrivo. Pare che Greg junior e senior mi avessero incrociato nell’emporio di stoffe del quartierino dove io solevo recarmi per chiedere informazioni su probabili lavoretti da svolgere. Da lì la voglia di quel bizzarro ed egocentrico giovane di avermi in moglie e sempre da lì la mania dei Miller di avvicinarmi a loro con l’inganno, certi che il loro Delfino non sarebbe stato capace di entrare nelle mie grazie come natura vuole. Avrei potuto accettare la sua corte visti i loro possedimenti, ma non lo feci perché, per quanto conscia delle difficoltà, restavo una sognatrice e continuavo a credere nel grande amore. Ecco perché appena potevo sgattaiolavo da quella tenuta portando con me sempre lo stesso libro che narrava di un amore oltre i confini del Tempo, una storia bellissima che mi dava la forza di proseguire la mia ricerca come avevano fatto prima di me Maximus e Leyla, i due protagonisti. Quella mattina, dunque, mi avviai per i viottoli di quel bosco ma sembrava proprio che ciò che cercavo non ci fosse. Era bellissimo ciò che vedevo, ma non mi emozionava. Tutto sembrava artefatto oppure troppo caotico. Cercavo me stessa e sapevo che non mi sarei ritrovata in una delle tante piccole e improvvisate aree ristoro, così, proseguii il mio percorso incurante della gente che al mio passaggio bisbigliava. Ero rea di oppormi a un matrimonio senza amore mentre molte delle signore presenti avrebbero fatto carte false per vedere le loro figlie al mio posto. A molti addirittura piaceva mettere in discussione la mia integrità morale basandosi sull’assurda credenza popolare secondo cui rifiutare una proposta di stabilità matrimoniale non si addiceva a una ragazza perbene. Non pochi uomini con fare ironico, infatti, si avvicinarono a me rivolgendomi apprezzamenti volgari e offensivi, apprezzamenti dei quali mai parlai con alcun essere umano per evitare tragedie ben più gravi della mia rispettabilità ferita. Superati i numerosi ostacoli sulla mia strada mi fermai all’altezza di un grande masso sul prato. Stanca e finalmente sola, annusai l’aria e sentii vibrare un sapore dolciastro che stuzzicò la mia golosità. Era un profumo così denso che decisi di seguirlo come si fa udendo il magico richiamo del mare. Fu la scelta migliore possibile perché, appena vidi dove ero finita, capii che quello era il posto giusto dove la mia anima avrebbe potuto trovare conforto e riposo. L’albero di ciliegie, era davanti a me e continuava ad emanare il suo arcano richiamo. Era luminoso e ricco di frutti, anche se sembrava triste. Tutto intorno c’era un prato di fiori e qualche ape tanto che dovetti stare attenta a non farmi pungere. Mi sembrava l’Eden, quello di cui mi parlava da piccola mia nonna e del quale avevo letto su alcuni libri in passato. Ai miei occhi quello scenario sembrava ideale, tanto che ebbi da subito la sensazione di potermi fidare e rileggere in pace il libro più bello che avessi mai letto, il simbolo dell’amore oltre ogni limite. I De Valois per me, difatti, erano una speranza. Mi avvicinai all’albero e feci per abbracciare l’enorme corteccia come se in quel momento stessi abbracciando un essere vivente. Chiaramente le mie braccia non bastarono a stringerlo tutto, ma provavo una sensazione di rilassatezza assoluta tanto da credere che quel gesto fosse normale e non da matti come pensai in seguito. Solo dopo, infatti, provai un pizzico di imbarazzo come se avessi l’impressione che qualcuno mi avesse vista, ma nonostante ciò la voglia di calarmi in quella storia magica e struggente era più forte di qualsiasi segno di pazzia. Fu per questo che mi accomodai sull’erbetta alla ricerca della posizione migliore e cominciai a ripercorrere le vicissitudini dei due amanti. Lessi ad alta voce e tutto d’un fiato e trovai soddisfazione nel farlo. E non mi sentivo più sola. Quell’albero mi dava delle vibrazioni positive e a volte addirittura gli rivolsi qualche sguardo alla ricerca della sua approvazione mentre proseguivo la lettura. Dopo due ore mi accorsi che era tempo di tornare a casa Miller e la cosa non mi sorrideva per nulla. Il solo pensiero che quella pace sarebbe stata certamente turbata dalla vista di Greg e dei suoi familiari mi rendeva nervosa. Era doveroso, però, rientrare e così feci con nel cuore la certezza che sarei tornata appena possibile in quel posto fatato. Per giorni continuai ad andare a trovare quell’albero che via via sembrava diventare sempre più vivo. La tristezza che mi era sembrato di cogliere il primo giorno aveva lasciato spazio a un entusiasmo nuovo tant’è che più tempo passava più mi sembrava di avere compagnia. Mi sedevo, mi alzavo, camminavo e mi arrampicavo raccontando dell’Osservatore dell’Infinito e della paradisea. Ormai non leggevo più. Parlavo all’albero e aggiungevo dettagli inesistenti nel racconto immedesimandomi. Era il momento più bello della mia giornata e il mio umore, grazie a questo, era più positivo. Riuscivo, infatti, a non temere più le avances di Greg né i commenti cattivi della gente. Sorridevo e cantavo all’ombra del quell’enorme chioma fiorita e me ne infischiavo del resto, finché un giorno non accade qualcosa di incredibile. Mi ero recata al cospetto del mio albero di ciliegie in preda a un crisi nervosa. Avevo corso come un ossesso con le lacrime che a fiumi scendevano dai miei occhi. Greg Miller aveva scoperto il mio rifugio. L’uomo incuriosito dai miei giretti pomeridiani e temendo che incontrassi qualche giovanotto del posto, mi aveva seguito. Aveva raggiunto il mio nascondiglio e aveva scaricato su di me tutta la sua frustrazione. Per vendicarsi dei miei rifiuti mi comunicò con disprezzo che avrebbe fatto tagliare l’albero, recidendo senza pietà i rami e le radici per impedire qualsiasi improbabile ricrescita. Alla mia furiosa opposizione mi si scagliò contro con violenza riempiendomi di insulti. Non fu semplice liberarmi dalla sua morsa d’acciaio ma quando ci riuscii corsi a perdifiato dal mio albero. La scelta fu fortunata ma non saggia visto che avrebbe potuto tranquillamente seguirmi e raggiungermi per finirmi. Non lo fece. Ecco perché fui libera di sfogare tutta la mia rabbia e la mia angoscia e, nel contempo, vedere ciò che occhio umano non aveva visto né vedrà mai più. Arrivai ansimando e di fronte al grande albero mi piegai su me stessa poggiando le mani sulle gambe con la testa in avanti. Pian piano ripresi il colorito normale pur continuando a singhiozzare. Dopo qualche minuto ebbi come l’impressione di sentire dei rumori, ma stranamente la cosa non mi impensierì. Era come una lieve scossa di terremoto e solo più in là avrei capito si trattava delle radici. Fu un attimo e quel fruscio si rinnovò, una volta e un’altra ancora finché non posai la mia schiena al tronco e ad occhi chiusi cominciai a raccontare e raccontarmi degli amanti di Greenfiled per distrarmi e scacciare la paura. Sapevo a memoria ogni singola parola di quel racconto per cui iniziai senza esitazione. A volte, però, mi fermavo e le parole lasciavano spazio ai sospiri e all’ira. Ero delusa e arrabbiata e mi chiedevo se forse non avrei fatto bene a crescere visto che credere nel grande amore non l’aveva salvata dalle mani pesanti di Greg:
“Non ti fermare Cassandra…”, mi disse una voce possente.
Scattai in piedi. Mi guardai intorno spaurita. Che fosse Greg a parlarmi? Che mi avesse seguita fin lì per finire ciò che aveva cominciato? In un attimo cominciai a tremare come tremavano al vento quei fiori bellissimi di ciliegie ed ebbi freddo, un freddo intenso e penetrante che correva lungo ogni fibra del mio corpo:
“Chi sei?”, urlai continuando a rigirarmi su me stessa.
Poi un attimo di silenzio e un tocco leggero sulle mie spalle mi fece sobbalzare…
“L’albero…?!” balbettai…
“Sì, il tuo albero di ciliegie…sono qui per renderti l’abbraccio che mi regalasti tempo fa”, mi rispose stringendomi con i suoi rami scheletrici…Non opposi resistenza e mi lasciai sconfiggere dall’assurdo. Chiusi gli occhi e sentii un battito di cuore che alternava il ritmo…veloce…lento…veloce…lento… Poi biascicai qualche parola incomprensibile e vidi una luce fortissima, accecante. Mai tanto splendore nella mia vita avevo visto. Cercai di proteggere i miei occhi, ma l’albero con i suoi rami che pian piano diventavano braccia e mani strinse le mie tra le sue e mi obbligò a guardare la trasformazione. Durò pochi minuti, ma furono interminabili e magnifici. Un senso di esaltazione prevalse sulla paura quando vidi ciò che vidi. Un uomo sui trent’anni era lì davanti a me con i suoi occhi lucenti e la stanchezza di un corpo per troppo tempo costretto a vivere in un tronco. Sorrideva però, e continuava ad essere avvolto dalla luce… La potenza di quella metamorfosi mi sbalzò a terra finché quel bagliore mostruoso e magico insieme non scomparve e quell’essere mi si avvicinò con delicatezza:
“Cassandra…non smettere di credere nell’amore! Io sono la prova che esiste…se sono uscito dal mio corpo di legno è perché mi hai fatto riscoprire il sentimento…”
“Ma chi sei…un albero? Un uomo?”
“Non temere, io sono il tuo Maximus e tu la mia Leyla, come nei tuoi sogni…abbi il coraggio di fare una scelta e avrai ciò che cerchi…”
“Maximus? Leyla?”, biascicai “ma che vuol dire?”
“Sono venuto a prenderti. Sono ciò che cercavi!”.
Mi diede un casto bacio sulle labbra, il bacio più bello della mia vita. Sentivo l’uomo e il suo profumo, vedevo i suoi occhi e accarezzavo la sua pelle. Fu fantastico ecco perché ci stringemmo al cospetto del bellissimo albero di ciliegie che restava privo di vita umana. Nelle ore successive ci amammo e io capii che finalmente era tempo di smettere i panni sporcati dall’angoscia. Avevo trovato il mio Maximus. E Laocoonte, questo il suo nome, mi raccontò la sua storia…Diventare albero non fu un sortilegio. Scelse di vivere come parte della natura, quella buona, la parte migliore. E volle essere quell’albero, proprio quell’albero di ciliegie, all’ombra del quale per tanto tempo, come me, aveva letto la storia degli amanti di Greenfield. Era dunque il suo Tempio e divenne anche il mio quando, una volta stretti nell’abbraccio più dolce possibile, ci legammo come marito e moglie, uniti verso l’Eternità certi di non perderci come accade per gli esseri umani. Potevamo essere uomo e donna, ma noi che sapevamo dove guardare scegliemmo di essere tronco, rami, fiori e frutti. Tutto si compì nell’aprile 1906 e da allora, ogni notte, continuo a cantare al vento la mia felicità, racconto la storia di Cassandra e Laocoonte, amanti coraggiosi, eredi spirituali di Maximus e Leyla.

venerdì 27 marzo 2009

Dolcezza




Ecco a voi "Gughino", un soffice peluche appartenente ad una persona speciale cui è stato regalato quando era piccola. "Gughino" è un bambolotto curioso, fine anni '80, di cui non si capisce se sia un cagnolino, un coniglietto o entrambe le cose... Ma è dolcissimo come pochi altri. La storia di questo pupazzo è lunghissima ma è soprattutto una storia d'amore. Appartiene ad una persona che è molto legata alla letteratura, alla scrittura ed al giornalismo. Una persona di cui non faccio il nome ma che lotta ogni giorno conservando valori morali che, ormai, sembrano essere riservati a pochi. A volte me lo presta ed io le presto l'equivalente, "Gughina". E' un gesto simbolico che rafforza sempre di più la nostra stima reciproca. E non mi vergogno di dire che anche gli scrittori hanno emozioni. A noi scrittori tocca il compito di parlarne e farle gradite ai lettori. Man mano che un libro viene letto, scomposto, esaminato diventa parte di chi lo legge. Egli si appropria delle emozioni dell'autore riplasmandole a seconda delle rispettive esperienze di vita. Così accade che anche una bambola possa diventare foriera di emozioni di tutta una vita. Proprio come nel caso di "Gughino". Non c'è nulla da fare: sono i lettori il grandioso palcoscenico dove le nostre emozioni possono volare, libere, come gabbiani delle stelle. Un grazie di cuore a Leyla De Valois, un grazie di cuore a chi crede che i sogni non sono vani perchè ci rendono capaci di guardare nella stessa direzione!


Massimo Valentini

giovedì 26 marzo 2009

"Cronaca di una vicenda infernale", recensione





"Cronaca di una vicenda infernale" è il titolo di un libro, dallo stile fluido e ben leggibile, scritto da Ivan Croce, uno scrittore esordiente come il sottoscritto. Io e Ivan siamo amici di penna e talvolta ci divertiamo ad osservare, attraverso le rispettive esperienze, questo strano, pazzo mondo. "Cronaca" è un un bellissimo romanzo che personalmente ritengo un'interpretazione tutta personale della Divina Commedia di dantesca memoria. Qui, invece di un filosofo ed un poeta, i protagonisti sono Spina, diavoletta buona di professione pasticcera (ed anche un pò... pasticciona!) e Johnny, l'umano che, suo malgrado, dovrà aiutarla in una nobile missione. I due ne passeranno di tutti i colori in un alternarsi di situazioni diverse ma comunque godibili. Il lettore non potrà non affezionarsi a questo ragazzo, Johnny, quasi un anti-eroe di tutti i giorni e di Spina. Questa ragazza bruna e graziosa che, se non fosse per la sua coda, sarebbe simile ad una qualunque ragazza del mondo reale. "Cronaca di una vicenda infernale" non ha nulla da invidiare ad altri e più reclamizzati romanzi. Lo stile di Ivan in questo lavoro alterna noir, senso del mistero e una generosa dose di humour. Tutti insieme, questi elementi rendono la lettura di questo piccolo gioiello un vero divertimento. La Casa editrice è la Robin Edizioni di Roma. Inutile elencarvi le scene più belle perchè ogni pagina di questo libro va letta in prima persona e vi assicuro che appena lo comincerete non potrete non finirlo. I miei complimenti più vivi ad Ivan per avermi dato la possibilità di leggere il suo romanzo (e molti suoi racconti). "Cronaca di una vicenda infernale" è un'opera che ha l'enorme pregio di far capire che anche nell'esistenza di tutti i giorni è possibile scorgere il Fantastico dietro l'angolo. Ed è questo, oltre al senso dell'avventura che è parte di ciascuno di noi, che rende la vita un'esperienza davvero speciale! Proprio come questo libro.



Massimo Valentini

Il mio secondo libro: "Ultima Thule" (romanzo)




Questo romanzo è ispirato da una mia personale esperienza in Antartide che visitai nel 1996. Nonostante si tratti di un'avventura di fantasia (e non un resoconto tecnico) tutte le informazioni geografiche, le attrezzature utilizzate e i luoghi visitati sono descritti con precisione. Anche questo libro è inserito nella collana "I mosaici" della Falco Editore di Cosenza. Il protagonista è un mio alter-ego (Maximilian...) che compie questo viaggio per cercare "un tempio dove praticare la sua religione". Egli si troverà a lottare non solo contro un ambiente ostile (l'Antartide, appunto!) ma anche contro le sue stesse paure alla ricerca di un luogo "non di questa terra" dove affrontare e risolvere i suoi personali fantasmi. Come spesso capita nella mia narrativa, anche questa è una storia d'amore. Ma non esistono sdolcinatezze o luoghi comuni. L'amore che vagheggia il protagonista è quello scevro dai pregiudizi e dalle ipocrisie del mondo.

Maximilian è aiutato nel suo compito da un'affascinante ricercatrice americana (l'enigmatica e dolce Sue), un simpatico naturalista francese (Ethan, con il pallino dei cetacei) ed il comandante dell'Aurora, (Pecconelli) la gigantesca rompighiaccio che porterà il suo equipaggio ai confini di un mondo maestoso e fatato dove i venti catabatici, il paesaggio impressionante e la sua maestosa solitudine insegneranno ai personaggi di questo romanzo il vero valore della solidarità umana e dell'amore.

martedì 17 marzo 2009

Il mio primo libro. "Alfa e Omega" (racconti)




Questo è il primo libro che ho dato alle stampe, "Alfa e Omega". (Falco Editore, collana: "I mosaici", 2007. e-mail: info@falcoeditore.com) ) Si tratta di un'antologia costituita da due racconti lunghi appartenenti al genere Fantastico. Il progetto e il titolo nascono da un paradosso temporale. "Alfa e Omega", infatti, si riferisce al primo che abbia mai scritto ("Il cigno") ed all'ultimo racconto scritto in quel periodo, ("Sull'oceano del tempo"). I due racconti hanno entrambi come tema centrale quel valore universale che a volte s'instaura tra due persone a dispetto di qualsiasi destino e volontà cosciente di vita. E tutto il libro, nel suo complesso, è da me considerato un dono alle persone che si amano affinché non si arrendano mai davanti alle avversità ed anzi diventino più potenti e solide contro tutti e tutto. Le storie possono essere lette come due facce della stessa medaglia i cui protagonisti (un uomo nel primo racconto e una donna nel secondo) si troveranno a lottare contro un'intera società per affermare il proprio diritto a conoscere ed amare. Per questo motivo, "Alfa e Omega" è dedicato a chi si ama davvero, alle persone che sanno guardare nella stessa direzione. In definitiva, ai Gabbiani delle Stelle...




Massimo Valentini

venerdì 13 marzo 2009

Breve biografia


Sono nato a Cosenza nel 1973 e sono un giornalista pubblicista impegnato in tutto ciò che ha a che fare con carta, penna e computer. Per la disperazione dei miei amici nutro molti interessi, a volte in aperto contrasto tra loro. Come carattere, non sono un gran viaggiatore se si eccettuano piccoli spostamenti a Londra, Parigi e varie località italiane. Gli unici miei viaggi di un certo rilievo li faccio per lavoro; tra i posti che ho visitato l'Antartide, la Bosnia, il Pakistan, l'Egitto e la Nuova Zelanda. Ho iniziato a scrivere in maniera professionale per conto  della Cheloni editori, una piccola casa editrice che anni fa ha curato l’Enciclopedia dei Comuni della Calabria, opera turistico/antropologica uscito come allegato della testata Il Quotidiano della Calabria. Nel 2002 ho lavorato come collaboratore del Domani di Cosenza e provincia e vi sono rimasto per circa due anni. Tra un ritaglio e l’altro di tempo mi sono occupato anche di recensioni nel campo della saggistica e della narrativa. L'ultimo quotidiano dove ho prestato la mia opera è Il Quotidiano della Calabria. Il lato squisitamente divulgativo delle mie conoscenze mi ha convinto a esplorare nuovi lidi e così mi ho abbandonato i quotidiani per dedicarmi alle collaborazioni con riviste specializzate. Per il settore relativo alla Politica Geostrategica collaboro con RiVD. A molti questa sigla potrà non dire nulla ma è una delle testate più importanti in ambito internazionale. Articoli miei appaiono anche sulla rivista londinese The Mercury che tratta di divulgazione scientifica. Il mio cuore di appassionato di misteri è soddisfatto dall'antico e prestigioso Giornale dei Misteri, la prima e più importante rivista dell'Insolito in terra italiana.  L'altra passione della mia vita è la narrativa Weird e Fantascientifica, anche se non sono pochi i momenti in cui debba fermarmi per lavoro o altro. Finora ho pubblicato sei libri più un racconto singolo:  un'antologia di racconti fantastici “Alfa e Omega” nel 2007,  il romanzo “Ultima Thule” nel 2008, entrambi per conto della Falco Editore. Il mio terzo libro, “Quattro Ombre Azzurre" nello stesso anno ma con la milanese 0111 Edizioni. La raccolta Fantasy "Sulle ali di Althaira" è stata invece pubblicata nel 2009 e nel 2010, sempre con la 0111, la mia ultima raccolta di racconti, stavolta di genere Fanta-mystery,  "Gabbiani delle Stelle". Nel 2012 appare il mio racconto breve "Alfa e Omega" sul numero 482 del Giornale dei Misteri. Sempre nello stesso anno,  la Lettere Animate Editore ha pubblicato il mio nuovissimo romanzo "PRIMUS, l'Uomo che Sognava di Vivere". Il genere di questo libro è controverso anche se  è mia opinione che esso sia New Weird/Bizarro Fiction a sfondo distopico. Ovviamente per nessuno dei miei libri ho mai pagato per pubblicare!