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domenica 14 ottobre 2012

Scrivere baby o scrivere davvero




Come sapete il vecchio detto di popolo di artisti, santi e navigatori è tipico del nostro Paese. Non è affatto raro incontrare, sulla Rete, domande e risposte, tipicamente su Answers, di persone che chiedono ingenuamente trucchi e dritte per scrivere un libro. Una richiesta che fa il paio con le velleità canore che furoreggiano ovunque, come testimoniato anche dai soliti, onnipresenti reality arrivati alla mille-millesima edizione su tale falsariga. Lasciando perdere il mondo del canto, che non è di nostra competenza, sembrerebbe però che l’Italia sia un paese di aspiranti scrittori, e che molti di questi sono adolescenti. Ricordo che, anni fa, un pomposo Maurizio Costanzo, dal palcoscenico del suo omonimo Show, presentò al pubblico una scrittrice che definirei iper-baby (una bimbetta di pochi anni) che aveva pubblicato il suo primo libro. Alla domanda del cosa pensasse del libro che, se ricordo bene, inneggiava alla vita, ella rispose: “La vita è un raggio di sole!” e giù applausi come se piovesse. Tornando a tempi più recenti e al solito Answers, domande del tipo “come si scrive un libro?” o “Salve, vorrei scrivere il mio primo Fantasy. consigli?" oppure  "Ho finito di leggere Tolkien e i libri della super-stra-mega-fantastica Licia! Adesso vorrei scrivere un romanzo io...  10 punti a chi mi risponde, please!”  sono la norma. Domande che si aggiungono ad altre, anche più gustose, che fanno: “Voglio scrivere un romanzo… Però ditemi la trama!” come se questa si trovasse al supermercato pronta e in offerta speciale. Non c’è nulla di kattivo a porre domande del genere, se non fosse per un dettaglio: scrivere, anche se non sembra a un osservatore superficiale, non è esattamente come bere un bicchier d’acqua. Si può imparare, ma non si trova pronto su internet né si può pretendere che qualcuno ti riveli la trama del secolo, magari senza vampirelli mosci ed elfi yahoi tra i piedi. La cosa carina è che buona parte di tali pretendenti al trono dello Scrittore Superfighissimo, mostrano poco rispetto per la sintassi italiana, visto gli svarioni grammaticali degni del bimbominkiese più trito. Il fenomeno è ormai di costume da quando, complici case editrici più o meno furbette, sono diventati di moda i cosiddetti baby-scrittori. Ecco la definizione tipica:

Un “baby-scrittore è una persona, di solito non ancora maggiorenne, che riesce a scrivere un romanzo (probabilmente Fantasy o urban-Fantasy) raggiungendo un grande successo di critica e di pubblico. “Baby” è ingrediente importante per garantire una freschezza immaginativa adeguata al progetto di trame innovative e nuove, di grande seduzione letteraria”.


Traduzione per il volgo:

“Dicesi baby scrittore una persona adolescente tra i 12 e i 18 anni che riesce a pubblicare il suo libro grazie a politiche di marketing indovinate. Di solito, non ha mai letto un Fantasy (se pubblica un Fantasy) o comunque scrive grazie a ispirazione fornita dalla Strazzulla, dagli starnuti. Capita anche che scopiazz  tragga ispirazione dal solito Tolkien o, nei casi meno fortunati, dalla Troisi (quella che batte a casaccio sulla tastiera per inventare i nomi dei propri personaggi). Le conseguenze sul piano letterario sono disastrose, ma in compenso fa molto figo perché a 14 anni pubblica con Mondadori e voi no... gnè gné, gnè!”

Già che ci sono comincio subito col dire che io ho iniziato a scrivere a 14 anni, buttavo nel water ciò che facevo, ma ho cominciato il mio primo romanzo a 16 anni. Ho però iniziato a vendere i primi racconti a 18 e ho pubblicato per la prima volta, col mio nome, a 33 anni. Non ho intenzione di usare il politicamente corretto perché non mi interessa farlo e so distinguere l’educazione dal moralismo bigotto da quattro soldi; quindi proseguo col mio ragionamento. Ciononostante, sono consapevole di essere umano, e quindi di sbagliare, e non pretendo che queste note passino per Verità Assoluta et Universale, ma sono comunque un mio pensiero ben “aiutato” dalla mia esperienza letteraria. Ciò mi rende certo di non scrivere stupidaggini
Copertina di "Eragon"
Storia:

La storia del baby-writer cominciò con Paolini (Christopher) che alla bella età di 15 anni scrisse "Eragon", un  romanzo che capitò tra le mani di Carl Hiaasen, scrittore noir, che lo propose alla sua casa editrice. "Eragon" divenne un caso editoriale da 25 milioni di copie. Al di là del fattore C di Paolini, non possiamo dire che di Fantasy non ne masticasse, anche se "Eragon" sembra pari pari la versione Fantasy di Star Wars… A latere del suo straordinario successo ecco comparire la trilogia di "Acqua-Silva", di Anselm Audrey (nata nel 1982) da noi edita dalla Editrice Nord. In Francia, Flavia Bujor pubblicò a 13 anni  “Le tre pietre”, edito da noi dalla Sonzogno. La Perfida Albione, l’Inghilterra, è invece la patria di Catherine Banner che a soli 14 anni scrisse “Gli occhi di un re” ed è stata pubblicata da noi dalla Mondadori. Non sono tutti i casi di autori stranieri ma solo un assaggio. In Italy troviamo la già citata Licia Troisi che poco più che ventenne, allora, pubblicò “Nihal della terra del vento”, con Mondadori.
Un baby writer contento
A questo proposito, è curioso notare come i fan trovino notevoli cambiamenti di qualità negli altri due libri della sua prima trilogia, quando invece si trattava di un solo libro-mostro da migliaia di pagine diviso per motivi di marketing dalla Regina. Luca Centi, classe 1985, scrisse invece “Il silenzio di Lenth” per la Piemme. Chiara Strazzulla, sì, quella che scrive a starnuti, esordisce con le 800 pagine de “Gli eroi del crepuscolo” marchiato Einaudi. Non dimentichiamo Alessia Fiorentino, che ha scritto “Sitael, la seconda vita” per la Dario Flaccovio. (nonché di prossima rece su questi lidi). Il già recensito “Bryan di bosco quieto nella terra dei mezzi demoni” è di Federico Ghirardi, per la Newton & Compton. Non sono i soli: ne esistono tanti, tantissimi altri. La domanda che sorge è una sola: perché? Prima che qualche furbastro dica "dici così perché sei invidioso!” la domanda in questione andrebbe in realtà scritta così: “I romanzi di questi giovani scrittori sono validi? No, e questo nel 90% dei casi. Molti di voi mi hanno mandato almeno un romanzo di tali nomi che mi ha fatto letteralmente cadere le braccia. Il difetto principale è che, nel caso di Fantasy, tutti, da Paolini alla Strazzulla, da Ghirardi a Elisa Rosso, sembrano essersi ispirati al solito Tolkien. Non ho mai notato trame nuove, personaggi diversi dai soliti, tematiche differenti. Non solo: intrecci e stili sono anche abbastanza mediocri e questo è un dettaglio di non poco conto giacché molti di questi romanzi sono stati pubblicati da Big e non da casette editrici dove lavorano 4 persone. Spesso i personaggi sono senza carattere (come Bryan di Ghirardi: un perfetto idiota! Il personaggio, dico, non l’autore). Dobbiamo anche evidenziare che questi libri sono tutti di genere Fantasy e sono fatti davvero col copia e incolla. Apritene uno a caso e vedrete la solita cartina geografica disegnata col compasso e quella sarebbe, per loro, l’ambientazione. Dal punto di vista dello stile, e quindi della tecnica, le cose non sono esaltanti. Pov ballerini, infodump a manetta (tanto è Fèntasy!) stili scadenti, personaggi che definire piatti sarebbe un eufemismo, definiscono la vera essenza di questi libri e cioè che poco importa da chi sono pubblicati: sempre scadenti sono. Ma perché pubblicare da giovanissimi? Perché non aspettare di migliorarsi, di continuare a leggere sempre meglio e, di conseguenza, scrivere sempre meglio? La mia spiegazione è che oggi si è tutti affetti da un terribile morbo: protagonismo. Genitori che considerano i propri figli come geni anche se hanno scritto solo tre paginette e che corrono a vantarsi con amici, parenti e a inviare lettere agli editori. Se ci pensate bene la cosa non è diversa da quei baby cantanti, così ben ammaestrati da media e genitori, che sgomitano tra loro sul palco di una nota rete italica. Baby cantanti che parlano, anzi no, che cantano di amore, sesso, filosofia ecc, in un modo che sinceramente considero agghiacciante. Così è per quei genitori che chiedono al figlio/figlia: “quante pagine devi scrivere, ancora?” o “Aspetta che chiamiamo zio X che ha contattato l’editore Y perché sei davvero bravxxm!!!!” Ovvio che dal canto suo, il baby scrittore crederà davvero di essere Poe, magari senza sapere chi era poi, stò Poe!  E gli editori? Beh, per loro è marketing e quindi guadagno, vi pare? Ignoreranno il massacro della lingua italiana, si faranno beffe della trama e pubblicheranno il giovane esordiente con una minima passata di editing (leggete uno qualsiasi dei libri della Troisi e vedrete…). In libreria, se è una Big, il libro ostenterà con orgoglio la fascetta che recita: “capolavoro scritto solo a N anni…” e subito una marea di pubblicità, seguita dalle recensioni entusiaste di tutti i lecchini critici compiacenti, mentre il pubblico poco specializzato berrà con entusiasmo la balla dei milioni di copie venduti. Non credo che quello descritto sia un panorama immaginario: è sufficiente guardare alla marea di nuovi libri pubblicati ogni anno e l’ego degli autori pubblicati che non accettano la minima critica alle loro opere. Adesso, già vedo le critiche di chi taccerà chi scrive di “invidia”, “kattiveria” e “arroganza” e bla, bla e bla, il fatto è che per giudicare un libro servono tempo (per leggerne tanti), voglia (per fare la stessa cosa senza guardare sempre e solo la televisione) e competenza (ovvero una testa che funzioni scevra da idiozie perbeniste da quattro soldi) E prima che lo dicano altri lo faccio io: Ho pubblicato finora sei libri, nessuno a pago anche se  non ho mai pubblicato con Mondadori o con l’Einaudi, ma con piccole case editrici. Voi sapete che un altro mio libro è prossimo alla pubblicazione e, se Althaira mi aiuterà, così sarà sempre. 
Writer autentico al 100%
No, non sono invidioso e no, non voglio essere ricco, famoso e amato dalla figa. E non sono contro la gente che ha la passione di scrivere, sia chiaro: preferisco vedere gente che scrive, Fantasy, SF o quel che vuole, invece di sparare stronzate alla Lapo Elkan, di ubriacarsi, o di  sbavare all’uscita dell’ultimo modello di supertelefonino che fa figo. Solo, quando arriva il momento di pubblicare, magari con un editore NON EAP, chi scrive, baby o meno, diventa appunto un autore pubblicato, cioè ha lanciato verso il pubblico un documento. Come tale deve scrivere libri leggibili, non ciofeche. E no, non conta con chi hai pubblicato, né quante copie hai venduto grazie alla pubblicità. Perché, e lo dico sinceramente, non mi serve l’Einaudi o la Pinco Pallo Editore per capire che i libri di una qualsiasi Melissa P sono merda allo stato puro. Quel che serve è la voglia di scrivere per davvero e per farlo, come diceva un fesso di nome Kubrick,  serva il tempo che serve. Volemose bene
Massimo Valentini


lunedì 8 ottobre 2012

"Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" Recensione


Questa volta affronteremo la recensione di un romanzo che ha fatto storia e che è universalmente riconosciuto dalla Critica come uno dei titoli più significativi della Fantascienza di ogni tempo. Parliamo di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip K. Dick, dal quale è stato tratto un altro capolavoro, stavolta di celluloide,  e cioè “Blade Runner”, di Ridley Scott. Perché? Perché lo sto rileggendo in questo periodo (si può dire che ormai io lo conosca a memoria) e perché mi sono francamente annoiato di leggere paccottiglia sf moderna, che appare spesso come una confusa rielaborazione di temi già affrontati, con la parziale eccezione di titoli come “Neuromante”, di Gibson, e pochi altri. Contrariamente a quanto si legge in molti siti che presentano una recensione di questo libro, io non mi limiterò agli elogi fini a se stessi, ma cercherò di evidenziarne  i difetti  alla luce delle ultime tendenze tecniche e narrative in voga al momento.
Trama:


Rick Deckard, è un “cacciatore di taglie”. Il suo é un lavoro particolare: ritirare, cioè uccidere, gli androidi che arrivano di nascosto sulla Terra. Proprio come quella di molti altri impiegati, anche la sua è una vita squallidamente ordinata, ambientata in una città semi-deserta e coperta di macerie. La polvere radioattiva ha ormai condannato gli abitanti a degenerare e morire, a meno che non emigrino su Marte, una delle Colonie Extramondo. Il rischio è l’alterazione delle capacità intellettive, che rende “cervello di gallina”, chi si ostina a non partire. Deckard vive in un mondo dove il sole non è più visibile e il genere umano è destinato a scomparire tra i rifiuti, la “palta”, come sono chiamati da Dick. Sposato a una moglie sempre depressa e che lo deprime a sua volta, con lo stipendio che non gli basta per vivere se non “ritira” sempre nuovi androidi, ha un solo fine: raccogliere soldi sufficienti per acquistare un animale autentico per fare a meno della “pecora elettrica”, la copia artificiale di una pecora che ospita sul terrazzo del edificio dove vive.  Già perché il suo mondo, decimato dalla guerra nucleare, ha perso ogni specie animale che dunque trova quotazioni altissime sul mercato. Invidioso della cavalla Percheron del suo vicino egli si affanna a cercare uno struzzo, una mucca o una capra per acquisire quello status che nel suo mondo sono gli animali. Gli androidi sono il contraltare umanoide degli animali elettrici che i cittadini con meno possibilità economiche acquistano per far credere agli altri di avere anche loro un animale. E questo lato ipocrita della società è così perfetto che i tecnici autorizzati a ripararli indossano vestiti e divise da veri veterinari. A differenza degli animali elettrici, però, gli androidi sono macchine biologiche costruite per il combattimento, il piacere e il lavoro. Lo slogan delle autorità, che rimbalza sui media e in televisione, recita che per ogni famiglia che emigra ci sarà un androide come compagno e schiavo.


Un fotogramma tratto da Blade Runner

Il loro desiderio è quello di essere umani o almeno accettati dai loro stessi creatori come individui e non come schiavi. I cacciatori di androidi come Deckard sono l’ultima difesa tra l’uomo e la sua copia artificiale ma organica, così umana da provare sentimenti se vive per troppo tempo. Per evitarlo, gli androidi sono forme di vita limitate geneticamente a una vita di 4 anni. La differenza con i veri esseri umani è che i primi mancano di empatia, cioè di consapevolezza e di partecipazione emotiva verso qualsiasi cosa. Ma i Nexus 6, questi i nomi delle più evolute di queste macchine, risvegliano gli occhi sopiti di Deckard verso un mondo che sembra confuso: quello della realtà. Egli stesso dubita a un certo punto di essere umano e quando comincia a provare una forma di pietà verso i suoi bersagli si ritrova a osservare il proprio mondo che si dissolve. Il solo valore di quel mondo, animali autentici a parte, sono le scatole del Predicatore Wilbur Mercer, predicatore che somiglia moltissimo, dal punto di vista filosofico, al Cristo. A differenza della Figura Cristiana si rivela anche lui un inganno, un attore che recita un ruolo. Accanto a questi abitanti, tra androidi troppo umani e umani troppo meccanici, un cervello di gallina, J.R. Isidore, uno dei tanti alter ego che affollano i libri del Nostro. J. R. Isidore è il solo a chiedersi cosa sia, il solo che provi sentimenti, il solo che avverta la propria solitudine e ne abbia paura. Disprezzato dagli stessi androidi è l'ultimo esempio di umanità perduta, un anti eroe di scarsa intelligenza ma, proprio per questo, più umano di androidi e cacciatori di androidi.
Ridley Scott e Dick

Recensione


Su questo romanzo hanno scritto di tutto quindi non avrebbe senso lanciarmi in arzigogolate interpretazioni filosofiche della trama. Sarebbe come recensire per la centesima volta "via col vento". A chi e a cosa servirebbe? qualsiasi appassionato di Fantascienza dovrebbe averlo già almeno sfogliato, quindi concentrerò il mio esame sui pregi e sui difetti. Vediamo...
Infodump A iosa. Per esempio, già il 1° cap, quando cioè Rick chiacchiera della cavalla col vicino, tra i suoi pensieri ci sono riferimenti alla polvere radioattiva della Terra. Il 2°, poi, quello che presenza J.R. Isidore (che in Blade Runner diventa J.R. Sebastian), è tutto un fiorire di infodump relativamente alla guerra, all’esodo verso Marte e al perché gli androidi venivano consegnati agli abitanti che decidessero di emigrare. Idem, quando appare Isidore che guida il camioncino per la ditta che ripara animali finti, e quando incontra Pris, la donna androide gemella/clone di Rachel (quella con cui farà sesso Deckard), lo stesso Isidore riflette sul perché lui è un “cervello di gallina”, di fatto presentando infodump di primo tipo mascherato da secondo.
Trama Dick NON spiega cosa ne fanno gli abitanti terrestri degli animali. Il vicino ha una cavalla che non fa altro che ruminare la propria  biada. Ma un cavallo DEVE camminare, gli serve spazio e non può correre sulla terrazza di un palazzo come tanti. Allora, che se ne fa il suo proprietario? E lo stesso Rick che a un certo punto adocchia uno struzzo, dove lo ospiterebbe se non sul tetto del suo palazzo e quindi, di fatto, condannandolo in gabbia? E a che serve possedere un animale all’esterno, sapendo che alla fine morirà a causa della polvere onnipresente? Se è vero che la trovata di limitare la vita degli androidi a 4 anni è eccellente a questo punto sembra superflua la figura del Cacciatore di Androidi. Perché tutti gli androidi prima o poi moriranno e non sono capaci di riprodursi, come dirà Rachel al protagonista.

Locandina di "Blade Runner"

Verosimiglianza scientifica Dick non spiega neanche determinate tecnologie. Molte di queste sono dichiaratamente arcaiche anche per i nostri tempi. Questa è una costante di tutti suoi romanzi, come se questi dettagli fossero secondari. Può essere che effettivamente fosse così: d'altronde la sua SF è sempre stata sociologica e non tecnologica, che però stona. Curioso, per esempio, che gli abitanti che non emigrano indossano “costose braghette di piombo” quando, considerata la tecnologia disponibile, dovrebbero avere ben altri ausili anti-polvere... Non è prevista alcuna protezione per gli animali dalla polvere radioattiva: considerato che questi ultimi costano un occhio della testa, sembrerebbe ovvio inventare qualcosa, anche una sola frase ma non si evince nulla del genere. Verso la fine, quando cioè Rick arriva da Isidore per uccidere gli androidi che si sono nascosti a casa del “cervello di gallina”, sarà la figura del profeta Wilbur Mercier ad apparire come visione mistica, ma senza che l’autore spieghi come e perché, dal momento che appena qualche pagina prima mostrava che lo stesso Mercier era solo un attore di scarso talento. 
 
Pregi:


Lo stile è a conti fatti poco fantascientifico e molto “sociale”. I dialoghi sono verosimili (tranne alcune eccezioni), il linguaggio usato anche. Molto buona la complessità della  trama che non presenta punti di ombra ed eccellente la figura di J.R. Isidore, dal punto di vista umano. Buona anche la dinamica della storia, anche se oggi un romanzo del genere sarebbe forse considerato lento, cosa che non condivido giacché è molto piacevole da leggere e non annoia. Certo, non è il classico romanzetto fotocopia, non parla di mostri provenienti da universi paralleli e non spiega le tecnologie usate. Forse gli amanti dell'infodump scientifico a tutti i costi potranno storcere il naso a leggere dell'assenza delle loro amate descrizioni, ma poco importa. La capacità narrativa di Dick non sembra affatto limitata dall'infodump né dall'assenza di complicate quanto improbabili descrizioni tecniche. Le stesse informazioni che l'Autore usa per spiegare il mondo dei suoi personaggi non arrecano noia, ma anzi contribuiscono a ricreare il mondo di una realtà apocalittica. Ricordiamoci che Dick è stato il precursore del cyberpunk e che molti, a partire dall'osannato Gibson, devono ben più di poche idee al grande romanziere americano. Ma allora, queste benedette tecniche servono davvero a migliorare un romanzo oppure sono soltanto una moda? La risposta è una sola: ciò che serve è l'equilibrio, ma ciò che manca può essere compensato dal talento. “Ma gli Androidi sognano Pecore Elettriche?” è figlio di un periodo, ricordiamo che fu scritto nel 1968, assai attivo dal punto di vista dell’inventiva. Sbagliano coloro che si azzardano a definire questo libro come un esempio del passato. Anche perché la gran parte dei libri moderni di SF, Hard o meno poco importa, deve moltissimo a questi capolavori che non hanno nulla da invidiare alle trame ritrite di oggi.


Quindi:


Nonostante i difetti accennati, e nonostante, con ogni probabilità, Dick non conoscesse affatto regole, assenza di infodump, cambi di pov e il mostrato, “Ma gli Androidi Sogano Pecore elettriche?” ricorda, almeno a chi scrive, certi romanzi di atmosfera di H. P. Lovecraft. Dettaglio, questo, che fa dimenticare l’assenza di una tecnica raffinata. Io stesso, che non esito mai a studiare tecniche e tematiche di oggi per i miei nuovi romanzi, penso che l’eccellenza sia non quella di seguire in modo ossessivo le regole e le tecniche, ma di usarle con cognizione di causa senza mai trascurare la bellezza, la Poetica che è poi la vera eccellenza di questi romanzi. Perché è grazie alla perfetta armonia tra ispirazione artistica e tecnica che gli androidi, chi legge e chi scrive potranno continuare a sognare e , qundi, a riflettere.



Massimo Valentini