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lunedì 30 maggio 2011

Và dove ti porta il pc...




Ieri era domenica e me ne stavo mollemente disteso sulla sabbia della rinomata Citrarium Beach, insieme ad Anto. Davanti a noi il mare, in verità un tantino incavolato, una scogliera sbrindellata sulla sinistra e una brezza che aveva il sentore di un uragano col singhiozzo. Accanto a me, fedele come un agente della tasse, il mio smarphone. Sì, uno di quegli aggeggi che ti collegano a internet, ti fanno il caffè, ti danno la ricevuta fiscale, ti mostrano i tuoi contatti su FB, ti inviano gli sms verso Proxima Centauri e ti consentono di vedere a duemila metri un topo che fa la ola.

Ora, con gli occhi chiusi, pensavo ai fatti miei e ai due libri che sto scrivendo attualmente, vale a dire il nuovo romanzo e il Saggio. Dovete sapere che gli scrittori sono gente strana: amano guardare il mondo come se avessero accesso ad altre, e più remote, sfere d’esistenza. Ma questo atteggiamento non va bene quando ti siedi davanti alla dannata sedia del pc né quando hai a che fare con uno smarphone. Almeno nel mio caso.

La mia gioia davanti ai capricci del pc


Sì perché lo schermo (dello smarphone) è eccessivamente piccolo: sembra progettato con un occhio di riguardo agli oculisti e poco agli utilizzatori, e quindi i caratteri sono piccolini, le schermate minuscole, le lettere microscopiche e le funzioni tante. Il computer, invece, ha la sinistra tendenza a sputacchiare messaggi di errore ogni volta che serve, quando cioè devi spedire quell'importantissima mail, quando devi ricevere il contratto di un libro o quando devi spedire un manoscritto al tuo editore corretto dai refusi per la pubblicazione. Quando devi cazzeggiare in rete, invece, funziona benissimo!

La cosa si ripete con gli smarphone. Chissà perché perdono sempre la connessione quando ti serve. Non so se a voi capita, ma quelli che compro io tendono a disintegrarsi al minimo tocco quando invece cellulari da 20 euro funzionano dopo essere stati espulsi da un tritadocumenti... mistero!

A volte penso che dovrei chiamare Giacobbo, ma poi penso che lui darebbe la colpa solo a Templari e Alieni dimenticando Android e Microsoft, quindi ci rinuncio.

Consapevole della cosa me ne sto beato, intento a pensare ai fatti miei. In effetti stavo pensando a una scena importante del romanzo che vede un manipolo di tizi inseguire il protagonista nel bel mezzo di un deserto, mentre alcuni pezzi di bip gli volteggiano sulla testa in elicottero. Se ancora non lo aveste capito io amo molto i miei protagonisti.

Così, quando Anto mi chiede di controllare il blog io le rispondo di no. Perché no? Perché detesto usare quel coso per fare il lavoro di un computer vero. Troppo piccolo lo schermo, preferisco usarlo per navigare, ascoltare musica e fare telefonate (quando le fa). Bene. Ovviamente lei insiste, le chiedo di aspettare. Vince lei e dopo qualche secondo eccoci lì a smanettare con il maledetto schermo touch che una volta entrato nel blog mi mostra una pletora di commenti.

Il riflesso del sole non ci consente di vedere bene che diavolo stiamo facendo quindi pensiamo semplicemente a svuotare tutto e a ricontrollare le statistiche del blog. Cancella cancella, finalmente Anto ipotizza che forse NON sto facendo la cosa giusta. Perfetto, cancellato tutti i commenti di ben tre post e quasi tutti quelli di un quarto! E in questo caso l'anello debole ero stato io, non l'aggeggio.

Ora, io lo so che vorreste appendere il sottoscritto come un cotechino e carezzarlo con un gatto a nove code, ma a mia discolpa posso portarvi il riflesso del sole, lo schermo di quell’affare luciferino e la mia totale incapacità di intendere e di volere quando si tratta di pensare a qualcosa di diverso dal romanzo che sto scrivendo. Perciò commentate qui, e scusate se ho cancellato ben 189 commenti senza volerlo. La cosa non si ripeterà col prossimo post, garantito. Quanto allo smartphone, viste le mie capacità elettroniche, lo cambierò al più presto con un telefono a manovella ma, soprattutto NON lo porterò in spiaggia!


Massimo Valentini



venerdì 20 maggio 2011

"Io sono leggenda", recensione film e romanzo




Richard Matheson: l’uomo

Conoscevo Matheson di fama, ma non avevo ancora mai letto nulla di suo eccetto il suo primissimo racconto, Nato d’uomo e da donna, bellissimo e abbastanza terrificante. Come già altri grandi quali, tanto per citarne alcuni, Dick, Zelazny e Simak per la SF, Howard, Zuddas e Machen per il Fantastico/Fantasy, anche Matheson non gode di tantissima popolarità tra le italiche librerie, complici gli editori, ovviamente, con la sola Fanucci che ristampa le opere “dickiane” e ora questo I am legend. A dire il vero un altro titolo di Matheson compariva nel catalogo della Mondadori, Al di là dei sogni, da cui fu tratto l’omonimo e scialbo film con Robin Williams. Di Matheson, sempre la Fanucci ha riproposto Io sono Helen Driskoll, peraltro con un’operazione commerciale furbesca, poiché il titolo italiano richiama il successo della recente versione cinematografica interpretata da Will Smith. (In effetti il titolo dell’autore, A still of echoes, è decisamente migliore per identificare la storia). Divagazioni a parte, Io sono leggenda è datato 1954: scolpitevi bene tra i ricordi questa data, 1954. Perché? Perché se leggerete questo libro e poi leggerete altre opere più recenti sulla figura dei vampiri non potrete pensare a queste ultime come migliori, semmai il contrario. Questo, sebbene lo stile di Matheson (che tra l’altro fu uno dei padri della famosissima serie “The twilight zone”, meglio nota come “Ai confini della realtà”) sia asciutto, privo di orpelli e fronzoli stilistici. E del resto parliamo di uno scrittore attivo nell’epoca d’oro della SF mondiale, gli anni ’50, quindi uno scrittore molto attento alla trama con uno stile semplice ma efficace, non patinato, quasi brutale, decisamente lontano dal classico canovaccio sui vampiri. Matheson non descrive i soliti cliché del genere, scenari gotici, castelli, vampiri bellocci adolescenti innamorati di cretinette collegiali o lupi mannari. Affida piuttosto l’orrore dei suoi personaggi agli ambienti domestici, a partire proprio da Nato da uomo e donna, che raccontava una torbida e agghiacciante vicenda di abusi familiari. Ovviamente, come tutti i maestri che si rispettino, è arrivato prima di ogni altro, tranne Stoker, a descrivere i non morti in modo innovativo, e possiamo leggere questo libro come se fosse ambientato ai giorni nostri senza che perda efficacia. Film come Daybreackers e 30 giorni di buio possono somigliare per alcuni versi alla trama (e forse le sono debitori) ma è incredibile come il vero scrittore svetti sulla massa, anche a distanza di quasi mezzo secolo. I vampiri di Matheson non sono affascinanti come il Lestat di Anne Rice (valida, ma pur sempre scrittrice di bestseller, sebbene migliori della media). Meno affascinanti, dicevo, ma molto più realistici perché privati di quella patina glassata e pseudo romantica che da alcuni anni ha ormai contagiato anche il mondo scritto.

Io sono leggenda, trama

Robert Neville è il solo uomo sopravvissuto sulla faccia della Terra dopo che un virus di origine imprecisata ha decimato la popolazione mondiale. Si alza all’alba e torna a casa prima del tramonto, controllando con attenzione che porte e finestre non offrano alcuna possibilità di effrazione agli altri. Beve molto, Neville, beve per dimenticare la moglie e la figlioletta morte, per dimenticare il buio che ogni notte lo assale, tentando di violare la fragile difesa tra lui e la follia, chiamando il suo nome e cercando di sedurlo con immagini di lascive donne che si spogliano davanti ai suoi occhi, protetti dagli spioncini, per convincerlo a trovare la morte per dissanguamento. Le sue giornate sono terribilmente solitarie, giri in macchina per strade deserte di una New York apocalittica, desolata, distaccata dai ricordi di un mondo che non esiste più. Le sue notti, invece, sono rumorose, i non morti sanno che lui è vivo, sanno che li guarda, e vogliono il suo sangue. Neville li osserva e intanto pensa alla sua condizione di essere umano ormai neanche più tanto umano perché troppo solo, ricorda la moglie, affila i paletti di legno che poi userà, di giorno, per fare strage dei mostri assopiti cercandoli casa per casa, ma cerca anche una cura per l’infezione cui per motivi ignoti è risultato immune. Per questo motivo, ovviamente di giorno, visita la biblioteca pubblica alla ricerca di strumenti, microscopi, libri e qualsiasi altra cosa che possa aiutarlo a trovare un vaccino. Il ricordo del passato è affidato a pochi ma efficaci flashback che informano chi legge delle origini del disastro: una guerra batteriologica o forse nucleare, cosa che “firma” il romanzo come scritto nel periodo di riferimento quanto a paura dei sovietici, e di una guerra nucleare. Niente è strappalacrime di questo libro, ed ecco perché prima ho accennato allo stile da SF nuda e cruda. Le descrizioni della figlia morta gettata nei roghi comuni quando ancora la gente era numerosa, la moglie seppellita amorevolmente ma uccisa brutalmente dopo il suo ritorno dalla fossa, il desiderio di una compagna femminile che fa a pugni col desiderio contrario di farne a meno, perché troppo assuefatto alla solitudine. Ma il ritrovamento di un cane riaccende nel suo cuore torpido il desiderio di una compagnia, anche se non umana. Invano: il cane morirà letteralmente di paura, anche se Neville lo assiste come può. Scordatevi i buoni sentimenti: questo è un romanzo di sangue vero, non glitterato, e non è una storiella splatter. Man mano le conoscenze del protagonista si fanno più affidabili ed ecco che scopre il responsabile della catastrofe: un batterio ematofago che si nutre di sangue e che usa i propri ospiti come mezzi per procurarsene di fresco. Con questo escamotage, Matheson (nella foto in alto a sinistra) priva per sempre il vampiro di ogni fascino gotico, ma non è una brutta cosa; è invece assai più terrificante, perché quel che lui narra potrebbe un giorno essere realtà se davvero esistesse un batterio del genere. Anzi, non senza una forma di beffa, lo scrittore accenna alla figura letteraria del vampiro descrivendo non morti che credono di essere pipistrelli, e che muoiono come imbecilli dopo essersi gettati da lampioni o da tetti cercando di svolazzare. Il romanzo è composto da quattro sezioni attraverso le quali Matheson migliora la prospettiva del protagonista, fino a quando non incontra una donna, Ruth. La ospita, in verità rudemente, nonostante le sue primitive speranze di trovare un essere umano vivo e diverso da lui, e piano piano i due cominciano a parlare delle rispettive vite e desolazioni. Ma anche quando per i due umani arriva il momento, di notte, quando i mostri chiamano il protagonista a gran voce perché si faccia uccidere, di un abbraccio fugace, la mente di Neville è pensierosa. Come può Ruth essere realmente viva? Chi è veramente? Decide di prelevarle un campione di sangue per vedere se il batterio abita le sue vene, ma quando lo scopre, Ruth scappa. Anche lei è infetta e soprattutto è una spia dei vampiri. Gli lascia una lettera alla quale, però, Neville non darà ascolto. Il romanzo termina con la descrizione di una nuova razza di vampiri (è questa la parte che ricorda un po’ il film Daybreakers) esseri che riescono a sopravvivere grazie a un farmaco a base di sangue e antibiotici che rendono il loro corpo capace di convivere col batterio mortale. Sono spietati, uccidono senza esitazione gli infetti ormai morti viventi ( e pertanto pericolosi anche per loro) e gettano le basi per una nuova razza sul pianeta Terra. Non c’è posto per un umano in quella razza, non c’è volontà di vampirizzarlo e basta. Non c’è pietà per l’umano che ormai vedono come un predatore della loro specie, una minaccia alla loro nuova società. E Ruth, la donna che gli aveva spiegato tutto con quella lettera, lo raggiunge un’ultima volta per dargli una morte veloce, non violenta, perché sebbene sia una di loro, con quell’abbraccio aveva scoperto di essere ancora umana. Dopo aver inghiottito le pillole fatali che lei gli offre, Neville guarda fuori dalla finestra del suo carcere e vede vampiri, tra cui donne e bambini, che lo guardano con paura e curiosità. Agli occhi di quella nuova razza è lui il mostro, il predatore di cui parlare di sera, quando fuori piove e i bambini ascoltano le favole dalle nonne. Richard Neville, ultimo della sua specie, è finalmente diventato leggenda.

Proprio questa è la grandezza del libro di Matheson. Il capovolgere un romanzo che poteva essere solo il capostipite, dopo Stoker, delle storie da vampiri, narrato con uno stile privo di inutili finzioni cinematografiche e televisive, rude e crudo, senza possibilità di salvezza da se stessi. Scordatevi finezze per spiegare i perché e i motivi, scordatevi anche la verosimiglianza scientifica. Quel che interessa all’autore è descrivere il diverso e rende giustizia a una frase a me cara, è cioè che in un mondo di folli il solo essere normale è additato come tale. Perla della produzione fantascientifica mondiale, Io sono leggenda, non è, a mio avviso, superato da nessuno dei romanzi sui vampiri che vanno oggi per la maggiore. Ne presenta, anzi, un lato innovativo e terrificante che nessuna Meyer o Rice potrebbe mai eguagliare. Perché a chiunque verrà in mente di scrivere qualcosa sui non morti cercando un punto di vista nuovo, Matheson potrà dire di essere lì prima di lui, e di essere, ancora vivente, diventato leggenda! 

Io sono leggenda: il film

La regia di Francis Lawrence (cui peraltro si deve il poco fortunato Constantine) e il protagonista Will Smith facevano ben sperare per questa trasposizione cinematografica. In realtà vi dico subito che la pellicola, sebbene ben girata, appare farraginosa, nonostante le buone performance del protagonista che anzi con questo titolo si riscatta da partecipazioni molto commerciali e farlocche come quella di Io, robot. In effetti, invece che seguire passo passo il romanzo di cui usa il titolo, il regista svuota la storia della sua profondità di espressione, ne fa a pezzi significati e angosce per dipingere una storia molto, troppo hollywoodiana e stravolgendone il finale in modo assai poco rispettoso. Questo, se avete letto il romanzo; se invece non lo avete letto allora I am legend è un film gradevole che Will Smith rende facile da seguire grazie a una brillante recitazione che qui abbraccia toni più adulti e consapevoli, dedicati all’aspetto psicologico del suo personaggio e alla costruzione della tensione attraverso lunghi momenti di riflessione. La fotografia di Andrew Lesnie dona colore e dinamismo alle scene e mostra una città abbandonata agli alberi e agli animali selvaggi, ai leoni fuggiti dagli zoo, che rendono onore alla definizione di giungla metropolitana. Ma questo vale solo per il primo tempo del film, non per il secondo. A differenza dal suo alter ego di carta, il Richard Neville del film ha già un cane, anzi una cagna, Sam, che però fa una brutta fine ad opera di cani vampiri che la contagiano. A parte quest’altra discrepanza col romanzo, che sarebbe perdonabile grazie alla scena che vede l’affranto protagonista uccidere il cane soffocandolo, dopo la sua “trasformazione” come vampiro, è l’incontro con Ruth e suo figlio che proprio non convince. Donna che appare come una mezza invasata, che gli dice di essere arrivata da lui grazie alla volontà di Dio (?) per convincerlo a raggiungere una comunità di altri esseri umani immuni al batterio. Anche i vampiri non convincono e sembrano più demoni/zombi che vampiri veri e propri. Realizzati in modo imperfetto con una pessima CGI, non sono mossi da nulla che non sia il mero desiderio di sangue. Non ci sono le motivazioni, spietate ma realistiche, di quelli del romanzo, non vogliono uccidere un predatore della loro specie ma solo bere il suo sangue. Idioti, bestiali, quasi fossero zombi, appunto. Il film sembra girato con il solo scopo di accontentare la massa di giovani da sabato sera & pop corn e non i cinefili veri e propri, soddisfacendo le pruderie di una Hollywood commerciale e il più classico dei sentimenti americani, tutti patria e ormoni combattivi. Intendiamoci: I am legend non è un brutto film, ma solo un film mediocre, anche se migliore di tanti altri a partire da La leggenda degli uomini straordinari che sull’onda del commerciale più becero ha letteralmente distrutto fior di romanzi in nome del dio dollaro. I Am Legend non è allora un filmetto tutto botti di Natale senza storia come quelli di Michael Bay né una mielosa trasposizione di romanzetti alla Twilight, Eclipse e New Moon, ma non regge il confronto con Intervista col vampiro, tanto per parlare di un altro film tratto da un romanzo, in questo caso di Anne Rice (autrice più commerciale di Matheson). Parliamo di un buon film che si lascia guardare, abbastanza onesto, che però poteva essere un film memorabile e per palati fini, grazie anche alla buona fotografia e all’ottima recitazione del protagonista. Ed è un vero peccato che questa pellicola, come invece è il romanzo, non resti una leggenda.

Massimo Valentini