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martedì 31 marzo 2009

Alfa e Omega: "Sull'oceano del tempo"







....E questo è invece il primo capitolo del secondo racconto che compone "Alfa e Omega": "Sull'oceano del tempo." Buona lettura....



Sull’oceano del tempo


E’ difficile spiegare il motivo del fascino che il mare esercita sull’animo umano. Questa sconfinata distesa liquida attrae l’uomo ma contemporaneamente lo respinge, evocando sensazioni delicate o terrificanti che siano, sempre intense. Personalmente sono molto legata al mare, in special modo quando è in tempesta ed a volte può succedere che nei week-end molli la vita quotidiana per scappare verso l’azzurro universo e contemplarne la selvaggia e misteriosa bellezza. La mia mente si perde sulle sue onde tempestose, sulla sua superficie corrucciata dal vento mentre le procellarie ed i gabbiani eseguono le loro delicate piroette tra i flutti iracondi avendo come unica compagnia i miei sogni più nascosti. A volte mi accade di restarmene sola, in cima ad una scogliera che si protende per alcuni metri sull’abisso, apparentemente intenta a scrutare le acque ma avendo in realtà gli occhi chiusi perché in quei momenti non ho bisogno di aprirli per avvertire la maestosa melodia del mare. Eppure non sono mai stata una persona romantica o impulsiva quanto scettica e razionale per natura. Ma alcuni anni fa accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la mia visione del mondo, del tempo e della vita stessa. Il fatto in questione non avvenne qui, tra le prosaiche strade e gli enormi edifici di New York, ma in una modesta cittadina adiacente al mare di cui gran parte delle persone non ha praticamente alcuna cognizione. Con il senno di poi potrei agevolmente catalogare ciò che è avvenuto come appartenente al mondo dei sogni più vividi che mente umana possa concepire, ma ci sono dettagli e ricordi che mi fanno capire quanto la vicenda che ho vissuto non possa essere limitata entro confini tanto evanescenti. Essa esiste più che nella mia mente, nel mio cuore ed ha fatto di me ciò che sono: una donna curiosa ed aperta a nuovi piani dell’essere e ai sogni. Ma forse è meglio che proceda con ordine. Mi chiamo Leyla Blueland e faccio la giornalista per il Big Apple Time, un noto quotidiano di New York. Sono sposata da quattro anni con Max Steele, reporter per l’Advertiser, un giornale concorrente ma facente parte dello stesso gruppo editoriale. Quando avvenne l’evento che sto per narrare io e Max non ci conoscevamo ancora ma, in un certo senso, fu proprio grazie a ciò che avvenne nello sperduto villaggio di Greenfield, nel Maine occidentale, che vennero gettate le basi per la nostra unione. Come ho già detto ciò che accadde nell’isolata cittadina che avevo intenzione di visitare potrebbe essere il risultato dello stress originato dai mille impegni della vita moderna: ancora oggi se ripenso a tutta la vicenda devo crederci per non pensare ad essa come a un sogno molto vivido e nulla più. Eppure, quando il mio sguardo si posa sulle onde dell’oceano per contemplarne la selvaggia potenza, ciò che credevo un sogno svanisce come la nebbia del mattino ed i ricordi si affacciano prepotenti nel mio cuore per ricordarmi che esistono, che non sono stati ombre della mente. Perché avevo scelto proprio Greenfield, una zona isolata e certo poco attraente per il turista medio? La risposta è da ricercare nel mio carattere, da sempre affascinato dalle storie raccontate accanto al fuoco e dal mistero. Avevo appena 24 anni e un’insopprimibile passione antiquaria che mi aveva già portata in giro per paesini il più possibile isolati, posti dove il turista non andrebbe mai perché troppo scomodi o all’apparenza noiosi che per me rivestono una profonda attrattiva. Se poi da queste parti c’è anche il mare allora è impossibile che possa restarne per troppo tempo alla larga. Spulciando tra le carte di famiglia avevo appreso dell’esistenza di certe lontane parentele di cui fino ad allora non avevo saputo assolutamente niente. Mia madre non me ne aveva mai parlato e quando trovai i documenti e le carte nella polverosa soffitta, assunse una strana espressione di timore a mio giudizio assolutamente misterioso. Mi parlò di una strana storia fatta di credenze e dicerie su persone che si diceva fossero in combutta con strane entità nei primi anni del 1920. Tutte sciocchezze, certo, ma che nella mia razionale testolina si spiegavano con quelle assurde credenze ancora profondamente radicate in tante zone di provincia. Mia madre, donna pratica e schietta, mi mise in guardia dall’idea di recarmi sul posto per saperne di più limitandosi ad asserire, in verità in modo alquanto sibillino, che i personaggi in questione non godevano dell’incondizionato rispetto della popolazione del paese e che dunque un mio coinvolgimento nella faccenda poteva assumere un aspetto non propriamente gradevole. Inutile aggiungere che il viaggio mi attirava profondamente. La mia famiglia dovette abituarsi all’idea e devo dire che, vista l’inutilità del loro tentativo per convincermi del contrario, mi diede tutto l’aiuto possibile. Fu così che quattro giorni più tardi acquistati un giaccone pesante, pantaloni in lana grezza, robusti scarponi per escursionisti e razzi da segnalazione. Tutta roba che si aggiunse alla già nutrita attrezzatura che mi aveva accompagnata nel mio girovagare per posti e zone caratteristiche. Quando lasciai New York il mio lavoro era momentaneamente finito e l’inchiesta sulle grandi multinazionali faceva bella mostra di sé sul tavolo del mio direttore. Avevo impiegato quasi un anno per finirla, ma ne ero soddisfatta e, soprattutto, lo era il mio capo. Così non fu difficile farmi concedere qualche giorno libero e un bel mattino sistemai la questione con il mio editore, rassicurai la famiglia e salutai gli amici. Organizzare la spedizione di una sola persona è semplice: sistemi la tua roba, saluti la famiglia, e parti. Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno i miei mi accompagnarono all’aeroporto dove salii sull’MD-80 che mi avrebbe portata sulla costa occidentale. Da lì, dopo una notte di riposo, avrei dovuto proseguire in macchina. Il viaggio fu noioso, ma non quanto il tragitto che dovetti compiere, al volante di una “Saturn” non in ottime condizioni, fino a Greenfield. Non incontrai molte strade asfaltate cosicché fui costretta ad affrontare zone un po’ impervie. Molte strade erano poco più che sentieri tracciati nei boschi e ingombri di detriti e avvallamenti vari. Per fortuna la segnaletica era piuttosto precisa e mi permise di non perdermi tra le tante stradine che costeggiano il paese. Qua e là mi capitò di costeggiare alcune zone abitate e tre o quattro volte sfilai davanti a bellissime ville che risalivano agli inizi del diciannovesimo secolo. Era una giornata molto mite e soleggiata: un tempo ideale per viaggiare in auto. Quando arrivai a Plum Island il paesaggio cambiò e gli alberi ed i boschetti che avevo incontrato soltanto pochi chilometri prima lasciarono il posto a strisce di sabbia sconfinata e deserta. Solo l’azzurro dell’oceano, così carico da sembrare dipinto, dava un tocco di vita ad un paesaggio dal carattere noioso e solitario. Lasciai la provinciale prima di mezzogiorno ed imboccai una strada secondaria che, costeggiando l’Atlantico, mi avrebbe portata verso la mia destinazione. Greenfield mi apparve quasi all’improvviso dopo una stradina abbastanza dura e fu con vero sollievo che imboccai il corso principale, ingombro di auto, che divide letteralmente in due la zona. Le insegne dei negozi oscillavano pigramente nella brezza del pomeriggio, tanto balsamica quanto gradevole, che spirava dal mare con costanza e continuità matematiche. Le case, tutte basse e nel tipico stile dei primi del novecento, davano all’insieme un tocco fiabesco di un luogo uscito per incanto dal passato, indifferente allo scorrere del tempo ai suoi confini, tempo che non ne intaccava minimamente l’aura di maestosa antichità. I giardini erano in genere ben tenuti, le aiuole rigogliose, tutte delimitate dalle staccionate in legno dipinto di bianco, i viottoli ed i marciapiedi senza un filo d’erba fuori posto: il panorama nel suo complesso era preciso e piacevole da osservare. Per un momento mi chiesi se, invece che in un tipico paesino dell’America meridionale, non fossi finita per errore in qualche cantone svizzero non segnato dalle carte. Persino il traffico, teutonicamente ordinato, era anni luce lontano dal caotico guazzabuglio di New York e non solo per il volume incomparabilmente minore. Anche gli abitanti mi parvero all’altezza della loro cittadina, in quanto chiunque incontrassi dispensava allo stesso tempo informazioni e gentilezza. Seppi così di alcune zone molto caratteristiche di Greenfield e che valevano almeno una visita. Esse erano la vecchia fabbrica del pesce, costruzione pittoresca e affascinante con i suoi mille comignoli ed i mattoni lastricati bianchi nel più puro old-style, il Passo del Salmone al Wild River, un fiume piuttosto selvaggio che attraversa l’estremo nord della cittadina e la curiosa immagine dell’ “Osservatore dell’Infinito”, un statua costruita sulla sommità di uno strapiombo da brividi all’estremo nord del porto. Grazie alle indicazioni dei passanti seppi anche il nome dei tre soli alberghi della città, ciascuno a suo modo caratteristico. Se il primo subiva l’invadenza tipica delle grandi metropoli con tutti i relativi agi e difetti, gli altri erano più “normali” ma era il terzo che mi attirava di più. “L’Onda perfetta”, così si chiama il locale, era una pensioncina a conduzione familiare dove la cucina era ottima, il trattamento buono ed i prezzi modesti. Situata quasi a ridosso del porto, somiglia dall’esterno ad una di quelle casette delle bambole che tanto avevo amato da bambina. Completamente costruito in assi di legno a loro volta solidamente fissate ad una base in mattoni bianchi, l’edificio presentava un ingresso principale a pianta quadrata, un giardino molto grande disseminato di rose e piante basse, alcune sedie a sdraio disposte strategicamente per garantire agli eventuali ospiti la brezza o l’ombra a seconda del momento, alberelli così dritti e snelli da sembrare in plastica e deliziose tendine bianche che facevano capolino dalle finestre. Quando entrai vidi un ambiente lindo e pulito, reso ancora più gaio dalla luce che entrava a fiotti dalle finestre. Mi resi ben presto conto che al pianterreno non c’erano altre stanze fuorché quella, abbastanza accogliente da servire da sala da pranzo, cucina e legnaia. Un enorme caminetto, deliziosamente rifinito con decorazioni che richiamavano scene di caccia alla balena, troneggiava al centro dell’ambiente. Accanto ad esso era sistemata con millimetrica precisione una grossa quantità di legna da ardere. Più in là, una mezza dozzina di tavolini erano già apparecchiati con un gusto semplice ma piacevole. Davanti a essi troneggiava un bancone in legno laccato di bianco, dietro il quale una donna di una certa età, ma certamente non anziana, stava lavando velocemente qualcosa nell’acquaio. La sua matura bellezza era evidente, ma faceva immaginare una giovinezza in cui il suo aspetto doveva essere stato altrettanto invitante. Mi salutò con un lieve inchino, come si usava fare agli inizi del ‘900, trovandomi un tantino in imbarazzo: “Buongiorno! – Esordii – la porta era aperta e così…”
“Ha fatto benissimo! Sono Liira Finetti, proprietaria di questa pensione. In cosa posso esserle utile?”
“Vorrei una stanza!” Dissi senza convenevoli poi, quasi a scusarmi di essere stata troppo diretta, chiesi: “Lei è italiana?”
“Da molte generazioni. I miei antenati vennero qui oltre trecento anni fa. Pare che il posto piacesse molto, la gente accoglieva bene i forestieri e così decisero di restare. Lei invece di dov’è?”
“New York! Sono qui per acquisire informazioni genealogiche.”
La donna mi guardò un secondo poi timidamente si fece avanti: “Beh, se mi dice di che si tratta forse potrei aiutarla io. Da queste parti, come immagina, è difficile non conoscere molta gente…”
La tipica diffidenza newyorchese mi tenne in scacco per alcuni secondi, pensierosa, ma poi il mio carattere naturalmente esuberante ebbe la meglio: “Sono qui per notizie su Maximus e Leyla De Valois di cui ho trovato scarne informazioni nella soffitta della mia casa natale. Le informazioni genealogiche e le vecchie storie sono la mia passione e mi piacerebbe saperne di più.”
La donna mi guardò con uno sguardo attento, tra il diffidente e il curioso, ma quando tornò a parlare lo fece con uno smagliante sorriso a trentadue denti: “E’ buffo che sia venuta proprio qui da me a chiedermi informazioni su Maximus e Leyla!” Sbottò in una risata garrula e aperta, poi: “Ma io sono una sciocca, mi scusi! Lei non può certo sapere. Le persone di cui chiede sono al centro di una bellissima leggenda.”
Fui piuttosto stupita dalle sue parole e cominciai a fare alla mia ospite molte domande, ma quella rifiutò con un elegante quanto risoluto diniego del capo: “Prima le faccio vedere la sua stanza! – disse – e poi stasera, durante una buona cena, le racconterò ciò che so di una storia che la interesserà sicuramente!”
Visto che non potevo fare altro, assentii. La mia ospite mi aiutò a portare di sopra le mie due valigie, spiegandomi che, poiché eravamo nella bassa stagione, avrei potuto scegliere la stanza che più mi piaceva. Mi guidò quindi per una rampa di scale piuttosto strette costruite con pesanti assi di pino sempre verniciate di bianco. A quanto pare il bianco sembrava la tonalità predominante a Greenfield. Alla fine della rampa ci ritrovammo in un corridoio rivestito con una carta da parati decisamente pesante. Notai che vi erano solo quattro stanze. La mia ospite volle mostrarmele tutte ed io ne scelsi una non troppo grande ma realmente deliziosa. Osservandola, confermai con me stessa che quella pensione era davvero una casa delle bambole. Come spiegare altrimenti un letto in ferro battuto decorato con motivi naif, una cassettiera bianca con i cassetti rosati, due comodini della stessa tonalità e delle tendine in pizzo che ornavano finestre molto civettuole con i loro archi vintage? Mi sembrava che da un momento all’altro sarebbe sbucata fuori Sissi o la Bella Addormentata… Solo il bagno, cui si accedeva tramite una porticina dai motivi floreali incisi sul legno, era più “normale”, anche se piuttosto angusto:
“Pensa che possa andare bene?” Disse allora la padrona di casa:
“Benissimo, grazie!” Annuii mentre posavo le mie valigie sul letto che scricchiolò leggermente:
“E’ affamata?”
“Molto! È da stamattina che non mangio un boccone.”
“Posso darle solo il piatto della casa. Non c’è molta scelta qui: oggi c’è stufato di cernia con funghi della zona.”
Risposi che mi andava bene e, dopo avermi informata che si cenava alle venti, la mia ospite mi lasciò sola nella stanza. Disfeci le valigie e sistemai la mia roba con tutta l’attenzione che la stanchezza del viaggio mi aveva lasciato, poi mi gettai sul letto, pensierosa. C’era un ché d’indefinibile nella padrona dell’“Onda perfetta” che sulle prime non avevo notato. Non era repulsione, ma semmai uno strano interesse e curiosità come se mi aspettassi istintivamente qualche rivelazione. Sul momento non sapevo cosa pensare di questa sensazione ma in seguito, quando venni a conoscenza di certi eventi, avrei capito che il mio istinto non si sbagliava. La situazione, tuttavia, mi elettrizzava. Alle otto precise ero già seduta ad un tavolo (scoprii ben presto di essere la sola ospite della pensione), davanti ad un piatto di stufato fumante ed in procinto di conoscere i primi dettagli di una storia che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia vita.

2 commenti:

  1. Cosa dire...
    Amo questo racconto come si ama una delle cose più care. E' prezioso per me...
    Un capolavoro fatto di simboli. Una poesia che mi accarezza e che non mi stanco mai di leggere. Comoplimenti...

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  2. Voi forse non ci crederete ma questo racconto per me rappresenta l'amore vero, o meglio ciò che io intendo per amore. "Sapere dove guardare". Questo non è un bel momento per me, ma vi assicuro che quando rileggo "Sull'oceano del tempo" riesco a liberare l'anima dalle catene dell'orgoglio. Attraverso questo racconto riesco a dire cose che la mia bocca non riesce a dire per pudore, paura o stupidità. Insomma rileggerlo ancora una volta mi ha indicato la strada da percorrere e ho capito che "Sull'oceano del Tempo" sarà per sempre ciò che è stato la prima volta che l'ho letto...la mia forza, il mio coraggio, la mia follia. Solo così potrò tornare ad amare il mio Maximus come merita..
    Grazie signor Valentini per tutte le emozioni che mi ha regalato e continua a regalarmi...

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