Cari amici, rieccomi a voi con un assaggio delle mie prime pubblicazioni. In questo post ho deciso di pubblicare il primo capitolo de "Il cigno" che a sua volta compone la prima parte del primissimo libro che ho dato alle stampe. Se vi va leggetelo e ditemi cosa ne pensate...
IL CIGNO
Alcuni anni fa accadde qualcosa che cambiò profondamente la mia vita e la conseguente visione che avevo del mondo. Ripensandoci ora, fu un periodo piacevole anche se all’epoca dei fatti che sto per narrare non lo sapevo ancora. Mi chiamo Richard Joyce e lavoro come reporter alla Fashion, nota rivista di moda la cui sede si trova nella caotica città di Boston. Allora mi dilettavo anche come consulente, attività che mi piaceva molto perché spesso mi portava in giro per il mondo a caccia di scenari suggestivi dove ambientare i servizi in favore di molti prodotti di consumo. La sola nota stonata era il rapporto con il mio capo, una donna autoritaria e decisa, che se da un lato apprezzava il mio operato non condivideva però la maggior parte delle mie idee. Per questo motivo molti furono sorpresi quando un anno fa decidemmo di stare insieme, conoscendo la diversità dei rispettivi caratteri. Ma forse è meglio che proceda con ordine. In quel periodo avevo terminato una serie di servizi sui posti più piacevoli dove recarsi in villeggiatura ed ero molto stanco. Lavorare a stretto contatto con le ragazze che appaiono sulle copertine patinate non è sempre bello come si può pensare. Personalmente non me ne sono mai stato sdraiato su un’amaca con una noce di cocco nella destra e del succo d’ananas nella sinistra: questa è roba per i turisti, non per gli addetti ai lavori. Il fatto è che noi lavoriamo per far divertire gli altri o, come nel mio caso, per mostrare le tendenze del momento in fatto di costume e modi di vivere. Avevo appena finito di lavorare ed ero tornato a casa dopo un mese di fatiche. Mangiavo poco e male, riposavo saltuariamente e, dulcis in fundo, avevo affrontato un viaggio di ritorno in cui l’aereo aveva ballato per tutto il tragitto a causa del cattivo tempo. Decisi perciò di chiedere a Sharon, che allora era il mio capo, qualche giorno per me, considerato anche l’ottimo gradimento del mio servizio. Dovetti affrontare una vivace discussione ma alla fine la spuntai. Scegliere la meta delle mie vacanze si rivelò tutt’altro che facile. Non volevo andare in uno dei posti che frequentavo per motivi professionali. Questo perché nei villaggi vacanze le compagnie turistiche organizzano tutto, compreso il numero delle volte che si può andare in bagno. Le località in questione poi, a prescindere dal posto, sono identiche fra loro: le palme a destra, le strutture alberghiere a sinistra, escursioni da (finto) brivido in mezzo e le classiche ragazze siliconate infilate lì per motivi scenografici. Per quanto mi riguarda preferisco spendere i miei soldi in posti più semplici, che magari ad altri potranno apparire monotoni, ma che per il sottoscritto sono sicuramente più genuini. Fu così che, dopo aver ponderato bene la questione, la mia scelta cadde su un luogo indicatomi da alcuni miei amici, fanatici di alpinismo, che avevano fatto escursioni in un paesino semisconosciuto di nome Nederland. Conoscendo il mio interesse per l’archeologia m’informarono dell’esistenza di uno strano rudere, situato nella valle che circonda il paese, che presentava, su una parete rivolta a nord, la curiosa immagine di un animale mitologico che non avevano saputo identificare per via della distanza. Sembra, infatti, che gli abitanti del luogo non amino andare nella zona dove sorge il rudere né portare i pochi turisti fin lassù a causa di un’antica maledizione. Ho sempre amato i miti e i racconti bizzarri per cui la faccenda mi sembrò interessante, anche se i miei amici si mostrarono un tantino perplessi quando annunciai loro di voler andare a Nederland per qualche giorno. Dissero che non valeva la pena affrontare un viaggio fin lì, considerata la distanza e la scarsità di strutture adatte a soddisfare un minimo di comodità elementare, ma insistetti e li convinsi a spiegarmi bene la strada per raggiungere il paesino. Mi rivelarono ciò che sapevano, pur con una certa esitazione, e mi feci consigliare sull’attrezzatura che avrei dovuto portare con me. Il giorno seguente comprai due paia di pantaloni pesanti, una giacca a vento imbottita, un sacco a pelo impermeabile e robusti stivali per escursionisti. Completavano la mia attrezzatura una buona dotazione di razzi da segnalazione che possedevo già. Il tardo pomeriggio dello stesso giorno caricai i bagagli sul mio fuoristrada e partii. I miei amici mi seguirono con la loro auto finché non fui capace di cavarmela da solo. Purtroppo le strade asfaltate che incontrai sul cammino non furono un granché e per giunta poche, cosicché fui costretto ad affrontare zone difficili anche per la mia fuoristrada. Molti sentieri erano letteralmente tracciati fra due file di sequoie imponenti che contendevano lo spazio ad alberi secolari le cui ombre gettavano tenebre e umidità sul terreno dove crescevano rampicanti d’ogni genere. Qua e là lepri ed altri roditori correvano spaventati al mio passaggio o si rintanavano nel cavo di qualche albero. Osservai scene simili per un paio d’ore finché, con la schiena provata, scorsi un cartello indicante il paese in questione: era ora! Mi restavano pochi galloni di nafta nel serbatoio, anche se potevo comunque contare sulle taniche di riserva nel bagagliaio. Quando entrai nella cittadina scoprii subito la strada principale larga e tranquilla, con poche auto posteggiate ai lati. Le insegne dei negozi dondolavano pigramente appese sulle aste, in balìa di ogni alito di vento proveniente dalla valle nella quale è incastonato, come una pietra di quarzo, il centro abitato. Nederland è anche il nome della cima più imponente di quella zona, un’immensa massa di pietra e vegetazione lussureggiante senza sentieri o alberghi, posta a nord della cittadina. Notai che le auto erano scarse e tutte non molto recenti. Sicuramente Nederland può rivelarsi un posto idilliaco per un collezionista di vetture d’epoca. Anche i passanti erano pochi, ma non scorbutici. Fu grazie alle loro indicazioni che riuscii a raggiungere la locanda consigliatami dai miei amici. Il falconiere, così si chiama il locale, è situato quasi al centro del paesello e dall’esterno somiglia molto a un castello in miniatura, grazie anche al modo in cui è costruito. Imponente e massiccio presentava finestre e ingresso principale ad arco, secondo i dettami gotici che trasparivano da ciascuna delle pietre scure con le quali è costruito. Questo, unitamente al clima umido e piovoso della zona, gli conferisce un aspetto vagamente sinistro, sensazione che risulta più accentuata sul far della sera. Appena arrivai, il cielo si era fatto plumbeo a causa di una nebbia invadente che proveniva direttamente dalla valle. Posteggiai l’auto davanti alla locanda ed entrai per chiedere al proprietario se fosse disponibile una camera. L’interno della costruzione era scuro e affumicato, i mobili pochi e massicci, con scarse concessioni al gusto e molte alla praticità. L’ambiente era comunque abbastanza spazioso, molto di più di quanto dava a intendere guardando la locanda dall’esterno. Al pianterreno non c’erano altre stanze fuorché quella, spaziosa quanto bastava per servire da legnaia, sala da pranzo e cucina. Una grossa catasta di legna da ardere era ammonticchiata accanto a un imponente caminetto in pietra grezza. I tavoli costruiti con robusto legno di pino, erano tanto rozzi da sembrare squadrati unicamente con un’ascia ben affilata. Davanti a essi troneggiava un bancone fatto del medesimo materiale, dietro il quale un uomo tarchiato e taciturno puliva un bicchiere con un panno. Non mi degnò di un’occhiata e tuttavia mi chiese:
«Di dove siete, amico?»
«Boston!» Risposi io, «Ho deciso di passare un po’ di tempo qui da voi tanto per ritemprarmi un po' dallo smog cittadino!»
Cercai di essere il più gioviale possibile ma né quello, né i presenti sembravano venirmi incontro. Ho già detto che c’era qualcuno nella locanda; aggiungerò che si trattava di due uomini, seduti uno di fronte all’altro, che mangiavano una generosa porzione di quello che sembrava cinghiale arrosto. Dimostravano un considerevole appetito e, ogni tanto, trangugiavano della birra scura da un enorme boccale in comune, posto al centro del tavolo. Li stavo guardando, quando una voce imperiosa mi fece voltare, era di nuovo l’oste:
«Siete provvisto di bagagli?»
«Ho due valigie nell’auto, qui fuori.»
«Beh, non crederete che vi aiuti a scaricarli!»
«No di certo!» Ribattei ironico e tornai fuori a prenderli. Mentre li portavo dentro cominciai a riconsiderare l’idea di tornare in uno di quegli alberghi fatti con lo stampino che frequentavo per lavoro. Quando posai i bagagli, il padrone mi mostrò un grosso e polveroso registro, invitandomi a firmare. Ribattei che volevo vedere la stanza, guadagnandomi un’occhiataccia da parte sua e un mugugno da parte dei due uomini alle mie spalle, che certo avevano occhi e orecchie puntati nella mia direzione:
«Nessuno si è mai lamentato delle mie stanze, amico, ma venite: ve ne renderete conto voi stesso».
Mi guidò per delle scale molto robuste, costruite anch’esse con pesanti assi di pino. Il corridoio dove sbucammo era tetro, ma ciò era dovuto alla presenza di due sole lampade per l’illuminazione, per giunta abbastanza fioche. Dopo aver percorso alcuni metri, aprì la porta di una stanzetta pulita, dalle pareti decorate con una carta un po' scura ma non opprimente. Evidentemente, le tinte scure erano dominanti, da quelle parti. Nella stanza trovai una massiccia cassettiera sovrastata da una lampada a petrolio, non saprei dire se funzionante o meno dato che il posto era ovviamente fornito di elettricità. Il letto, davvero imponente, era affiancato da un comodino spartano nella sua semplicità, ma adatto allo scopo per cui doveva servire. Una logora poltrona in cuoio era sistemata davanti a un caminetto, la sola fonte di riscaldamento della stanza. C’erano poi due finestre, dai vetri molto spessi, che davano sulla piazza del paese. Ad un lato notai un bugigattolo che serviva da bagno, con una doccia e i servizi igienici concentrati in uno spazio talmente esiguo che sarebbero andati stretti anche ai sette nani:
«È una stanza un po' limitata», Disse la mia guida, «Ma dovrete adattarvi: non ho altro. Pensate che vi possa andare bene»? Pronunciò queste ultime parole con una certa ironia che finsi di non capire:
«Sono una persona abbastanza adattabile e penso che vi starò molto comodo». Ribattei, posando nel contempo le mie valigie sul letto che scricchiolò leggermente:
«Siete affamato»?
«Molto… È da stamattina che non mangio un boccone!»
«Posso darvi solo il piatto della casa. Non c’è molta scelta qui: oggi c’è arrosto di cinghiale.»
«E della birra»!
L’uomo mi rivolse uno sgangherato sorriso dicendo che me ne avrebbe servita almeno un paio di litri:
«Torniamo di sotto, intanto»! Concluse e ritornò alla scale che gemettero sinistramente sotto il suo peso. Mentre scendevamo gli chiesi qualche notizia sul paese e sulle foreste limitrofe. Quello che mi disse confermò le parole dei miei amici sulla cordialità del posto ma, quando accennai alla valle, mi parve che il locandiere si rabbuiasse e preferisse non rispondere. Non proseguii, avrei avuto occasione più tardi di tornare sull’argomento. Ora mi importava di più far lavorare le mascelle. Sedetti a un tavolo vicino al fuoco ospitato nel grande caminetto, dove un arrosto girava lentamente sullo spiedo emanando un aroma eccellente. L’oste mi portò un piatto e un boccale identico a quello dei due compari che erano ancora intenti a far onore al loro pasto. Mentre il padrone tagliava una porzione di carne, mi dedicai alla birra. Il sapore era un po' acidulo e non mi parve così buono come mi era stato detto. L’arrosto era invece ottimo, tanto che ne chiesi un’altra porzione che mangiai di gusto assaporando ogni boccone come se non avessi toccato cibo da un mese. Soddisfatto l’appetito e ripulito di conseguenza il piatto, tornai alla carica sull’argomento precedente e chiesi all’oste se fosse possibile, per il giorno dopo, trovare una guida che mi potesse guidare nella valle verso la cima del Nederland. Mi sembrò che questa richiesta lo innervosisse, infatti mi squadrò da capo a piedi con l’aria arcigna:
«Perché volete andare al Nederland»? Il timbro della voce era pesante e scortese:
«Ho solo intenzione di fare un po' di escursionismo»! Spiegai, «Alcuni miei amici mi hanno detto che esiste una casa, nella valle, che reca una strana immagine sulla parete nord. Sono un appassionato di antichità e mi piacerebbe visitarla.»
«Non è posto per gli stranieri». La voce, profonda e sospettosa, proveniva dalle mie spalle. Mi voltai e vidi i due uomini di prima fissarmi in un mondo che non mi piacque affatto:
«Cosa c’è che non va»? Dissi, «Credete forse che potrei provocare un incendio o arrecare danni»?
Le mie parole dovettero divertirli, perché si guardarono a vicenda con l’espressione divertita. Da parte sua il padrone non proferì parola e continuò a pulire alcuni bicchieri con un panno sporco di vino:
«Non ci hai risposto»! Esclamò quello più alto e robusto.
«Ho detto che m’interessa l’escursionismo, nient’altro. Non so niente dei vostri problemi e non ne voglio io»!
«Hai sentito John»? Disse in tono canzonatorio quello basso al suo degno amico: «Il tizio qui non vuole grane»!
«Beh, invece le hai trovate»! Bofonchiò l’altro venendomi incontro con i pugni serrati. Mi alzai di scatto dal tavolo, facendo volare le posate sul pavimento, ma non lo feci abbastanza rapidamente per evitare un pugno che mi gettò a terra. Un liquido caldo, dall’odore fin troppo riconoscibile, cominciò a scorrere sulla mia guancia destra: capii di avere un bel taglio e questo mi fece davvero arrabbiare. Per ricambiare la cortesia sferrai un diretto allo stomaco del mio assalitore, quello più basso, seguito da un altro alla mascella. Con un gemito l’uomo si accasciò contro uno dei tavoli distruggendolo, ma l’altro mi sferrò un gancio in piena faccia, facendomi cadere sul pavimento, proprio accanto al camino. La testa mi doleva e ogni parola che veniva pronunciata da quei due mi rimbombava da una parte all’altra del cervello. Qualcuno mi afferrò per il bavero della giacca, ma riuscii a fermare il suo braccio in tempo per dargli un’altra carezza sul grugno. L’uomo arretrò, stordito, ma non cadde. Mi stavo preparando ad aiutarlo io ma il suo amico fu più veloce di me e mi spedì nel mondo dei sogni con un pugno bene assestato. Riuscii appena a sentire queste precise parole:
«Sta’ lontano dalla casa del cigno o te ne pentirai»! Poi tutto cominciò a girare e io sprofondai in un pozzo nero e senza possibilità di uscita.
Massimo Valentini
Vorrei dire una cosa de Il Cigno che forse non è ancora stata detta, e magari perfino i lettori tendono a non notare subito: è un racconto che appartiene a un genere molto raro; se infatti esistono frotte di racconti di Science Fiction, di metafisica, a tema libero e di puro genere Fantasy, non è invece affatto facile trovare un capolavoro fantastico-gotico-romantico come questo, né in Italia né sulla scena internazionale. Chi si appresta a leggere questo racconto (e lo consiglio a chiunque) sta per conoscere un’opera che pochi scrittori sarebbero stati in grado di produrre: e il Maestro Valentini è fra quei pochi.
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