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martedì 31 marzo 2009

Un omaggio a "Sull'Oceano del tempo"




Il racconto che leggerete oggi è stato scritto da Ivan Croce, mio amico, collega (è un bravissimo scrittore esordiente) e compagno di tante oniriche avventure sul pianeta Scrivere. L'ho letto tutto d'un fiato e lo posto con vero piacere. Il racconto è molto bello (ma da Ivan questo è scontato) e spero che piaccia anche a voi. Quanto a me mi sento lusingato di avere accanto persone magnifiche che con il delicato "L'albero" prima e con questo intenso "Canto della paradisea" ora, mi dimostrano la propria stupenda vicinanza.



Il canto della Paradisea




Ancora una volta visitai il Mondo dei Sogni, coi battiti del cuore che risuonavano come passi nelle tenebre. Quando varcai la soglia dell’onirico regno provai per l’ennesima volta la sensazione d’indossare un’identità che non mi apparteneva, solo per rendermi conto, l’istante successivo, che questa nuova interfaccia della mia anima mi si addiceva, al contrario, molto più della maschera che sempre indosso quando cammino nel Mondo Reale. Quella maschera ed ogni cosa che attraverso di essa avessi mai scrutato, me li lasciai alle spalle e all’esterno della sfera dei miei ricordi; perciò non mi si domandi chi mai io fossi nel regno della veglia, poiché più non lo rammentavo. Molti pensano che ai sognatori professionisti come me non accada mai di scordare la propria identità, ma posso assicurare che non è così. L’ultima cosa che ricordavo era il morbido letto in cui mi addormentai, e nient’altro, eccetto il contatto di qualcosa di soffice sulla mia spalla: ma che si trattasse delle bionde ciocche di una profumata amante che con me condivideva un sontuoso talamo circondato dagli arredi d’una lussuosa dimora, o il pelo arruffato della coda di un vecchio fedele compagno acciambellatosi al mio fianco sul modesto giaciglio d’una squallida soffitta, davvero non saprei dirlo. Quel che non avevo scordato, tuttavia, era la missione che mi proponevo di compiere nel corso del mio onirico viaggio: trovare il Signore e la Signora di un sogno che non mi apparteneva, ma che apprezzavo come una delle storie più belle che avessi mai conosciuto. Beninteso: a questo punto non si deve pensare che si trattasse di qualcosa che non avevo mai fatto prima, poiché la mia lunga esperienza di sognatore mi aveva permesso di inoltrarmi in molti dei sogni sognati da menti ben più profonde e luminose della mia, tanto che già innumerevoli volte avevo cavalcato il dorso di antichi draghi che volavano su nebbiose isole ai confini di fatati arcipelaghi, e ben conoscevo ormai i sentieri che solcano le profondità delle foreste popolate dagli elfi, così come le strade di oniriche città costruite con brillanti marmi colorati, ai cui moli attraccai dopo piratesche scorribande su mari tempestosi e gremiti di strane creature... Eppure questa volta sarebbe stato diverso, poiché il sogno in cui avrei cercato di inoltrarmi apparteneva in modo innegabile e peculiare – ed in tutta la sua potente e struggente intensità – soltanto alla Signora ed al Signore che l’avevano vissuto e plasmato con le loro menti e i loro cuori. E da dove avrei potuto principiare una simile ricerca se non dal luogo più consono? Decisi quindi di recarmi a Greenfield, e con la sola forza del pensiero – nella comoda maniera mediante la quale talvolta si viaggia nel Mondo dei Sogni – potei comparire tutt’a un tratto nell’amena cittadina. Devo ammettere, tuttavia, che fu una Greenfield dall’aspetto singolare quella che si presentò ai miei occhi: uno strano miscuglio di modernità e gradevoli atmosfere antiquate, come se parte della città fosse rimasta ai tempi dei secoli passati e si sovrapponesse curiosamente ad elementi tipici della vita odierna, come veicoli e passanti dall’aspetto indubbiamente contemporaneo. Via via che vagabondavo per le strade che conducevano verso quella che presumevo fosse la giusta direzione, questa sensazione si intensificò, e mi parve che l’aspetto degli edifici mutasse più rapidamente per assumere le sembianze di dimore cupe e dall’aria ostile... Non che fosse qualcosa di cui stupirsi: il sogno stava semplicemente reagendo alla mia presenza di intruso. Se infatti è vero che i sogni tendono sempre a cercare nuove menti in cui germogliare, a guisa di semi, a modo da aumentare le proprie probabilità di esistenza, è pur vero che sanno riconoscere coloro ai quali non sono appartenuti in origine e che con troppa leggerezza, e a volte senza averne il diritto, tentano di viverli. In fondo non era un caso se dopo il mio arrivo il tempo si stava rapidamente guastando e un plumbeo sipario di nubi era calato sul sole. La mia ricerca non durò meno di diverse ore, durante le quali non trovai alcun aiuto nelle confuse indicazioni stradali; gli sguardi torvi dei passanti, poi, bastarono a dissuadermi dal domandare informazioni a chicchessia. A quanto pareva gli stessi personaggi del sogno non avevano difficoltà ad identificarmi come un intruso. Nondimeno, alfine la mia ricerca ebbe successo: lievemente scostata dagli altri edifici divenuti ormai dimore ottocentesche, mi apparve improvvisamente la magione che andavo cercando, la casa ormai abbandonata in cui, molto tempo prima, avevano vissuto il Signore e la Signora del sogno in cui mi trovavo. Fu in quel momento che mi resi conto di quanto rapidamente il cielo si stesse spegnendo e di come il crepuscolo fosse terribilmente puntuale. Con occhi incupiti dall’ansia scrutai l’abbandono che scuriva le antiche finestre e il denso pullulare d’ombre tra l’intrico di arbusti del desolato guardino. La ruggine sulle inferiate del cancello luccicava come sangue su vecchie lame, ma senza curarmene avanzai verso la soglia. Un corvo gracchiò tre volte mentre la gelida maniglia cedeva sotto la mia mano. Quando fui nel giardino mi resi conto che non avrei mosso un passo se non avessi lottato per scostare il solido fogliame color verde cupo di un enorme cespuglio. Ma i brividi mi graffiarono più dei rametti appuntiti quando mi ci addentrai. In un istante tutto mutò, in nome della gloria e dell’ineffabilità dei Sogni. Ero in un bosco, adesso, e le tremolanti ombre si erano alleate tutte insieme per formare i veli della notte. Mossi qualche passo con l’ausilio della fioca aura lunare. A volte non lo si nota, ma c’è qualcosa di ridicolo e patetico nell’uomo che si sforza di camminare dignitosamente quando ogni cellula del suo essere gli urla di correre sotto l’impulso del panico... ecco, quest’immagine si addice assai bene al modo in cui stavo avanzando fra i tronchi contorti di quella selva spaventosa. Le tenebre incominciarono a sussurrare, e legnose dita scrissero scricchiolanti parole nell’aria: “Intruso, intruso, intruso...” E quando alla traditrice coda dei miei occhi parve che le ombre si plasmassero in zanne, artigli e ali fatte della pelle della notte, non riuscii a trattenermi dall’urlare: “Voglio soltanto incontrarli!” La mia voce si spezzettò in striduli echi; “Anch’io sono un sognatore,” ansimai, “e conosco l’incanto dei sogni di Purezza e d’Amore!” Allora una civetta nascosta da qualche parte tra le fronde degli alberi rise con voce echeggiante, e non appena i suoi strilli si spensero le ombre ripresero a mormorare, questa volta in un profondo e sordo brontolio che ricordava il lontano rombare di tuoni. Corsi fino a sentirmi stremato, incespicando continuamente sul suolo aspro e buio, e rischiando ad ogni istante di sbattere contro i tronchi minacciosi. Quando i miei polmoni si arresero alla fatica mi fermai e chiudendo gli occhi poggiai la fronte contro la corteccia dell’albero che mi parve meno spettrale. La rombante voce delle ombre si innalzava ormai come l’urlo d’una tempesta, seguitando ad accusarmi di aver vìolato un sogno che non mi apparteneva. Ma ad un tratto, così come solo nel regno onirico potrebbe accadere, un suono che invero era il più flebile di tutti superò e sovrastò i rimbombi che scaturivano dalle tenebre e mi ristorò il cuore come il tepore di un focolare in una notte d’inverno. Era il canto di un uccello, le cui note flautate pulsarono nell’aria lindandola da ogni borbogliare di tenebra. Aprii gli occhi e mi avvidi di essermi fermato sulla riva di un meraviglioso laghetto fatto d’argento liquido e luccicanti scintille di stelle... o forse era solo il riflesso della luna piena sulle acque? Sollevando il capo a guardare la volta stellata notai, stagliata proprio al centro del viso d’oro bianco della luna, la sagoma della Paradisea dal cui becco socchiuso proveniva quel magico canto. Rapito, avanzai verso quel ramo sulla sponda opposta dello stagno, ma l’uccello smise di cantare e volò via nella notte. Sbattendo le palpebre abbassai gli occhi sui miei piedi che con uno sciacquio erano affondati fino alle caviglie, quasi fossi sbalordito di non poter camminare sulle acque... e quando rialzai il capo mi ritrovai nuovamente nel giardino della dimora abbandonata di Greenfield. Ero finito dentro a una fontana colma d’acqua piovana che si trovava a pochi passi dall’ingresso dell’antica casa. Con un sorriso eccitato mi fiondai verso il vetusto portone e lo spalancai incurante del buio che avrei trovato all’interno, per poi scoprire, una volta varcata la soglia, che le tiepide fiamme di un camino rischiaravano una sala assai più vasta di quando si sarebbe potuto immaginare dall’esterno. Il mio sguardo fu catturato dalla parete che mi si innalzava di fronte, decorata dal grande e lucido bassorilievo di un cigno dalla testa di donna. “Non è quello che cercavo,” pensai, “ma sono comunque sulla strada giusta. I sogni della stessa mente sono sempre collegati.” E dovetti sorridere con eccessiva boria, perché il volto femminile scolpito nella pietra sorrise a sua volta, ma in modo vagamente minaccioso. “Intruso,” mi parve di leggere sulle labbra di liscia pietra, mentre il sorriso svaniva dalla mia bocca. La porzione di parete tra il camino e la scultura si increspò come piombo liquido e poi si stirò nuovamente, liscia come cristallo. Oltre quello specchio che non rifletteva vidi un’immagine che, quantunque sfocata come attraverso una parete di ghiaccio, mostrava un uomo vestito di quella nobiltà che non traspare dagli abiti ma dall’animo. Inghiottii prima di balbettare: “Lord De Valois...” ma la figura alzò una mano per zittirmi.
“Vagabondo dell’onirico reame,” disse con voce limpida e profonda, “per quale motivo cammini sui sentieri che percorrono le lande degl’altrui sogni?”
Cercai di darmi un tono e mi inchinai nel modo più formale che mi riuscì. “Mio Lord, vengo da voi con il solo intento di ammirarvi in silenzio come un pellegrino al cospetto del suo tempio. Null’altro che questo.”
La sua voce si venò di sarcasmo; “E, di grazia, cosa ti induce a ritenere di essere degno di null’altro che questo?”
“Sono un sognatore!” esclamai con ridicola indignazione, “E mi dichiaro un seguace di questo sogno e un ammiratore di coloro che lo crearono!”
“E non sei forse anche un imbrattacarte, laggiù in quella finta dimensione che voi chiamate ‘Mondo Reale’? Non stai forse progettando di scrivere un racconto che narri di questo sogno?”
Trattenni il fiato. “Ma...”
“Come faccio a saperlo? Sei tu che hai voluto sognarmi a tutti i costi. Se mi stai sognando, vuol dire che ora sono nella tua mente.”
“Regalerò il racconto all’Autore,” dichiarai, “poiché ho l’onore d’averLo conosciuto e di poterLo chiamare amico!”
“E ciò ti dà anche il diritto di varcare il confine dei Suoi sogni fino al punto di incontrarne il Signore e la Signora?”
Scossi la testa sconsolato. “Vi prego, voglio soltanto vedervi...”
Mentre la sfocata immagine si dissolveva e la parete tornava ad essere un semplice muro di roccia, udii un’ultima eco di quella voce vibrante. “Già conosci la risposta alla tua richiesta.”
Annuii tra me e me. “Dopotutto, questo non è il mio sogno.”
Mi voltai ed uscii, richiudendo silenziosamente l’antico portone. Attraversai il giardino selvatico senza calpestarne alcuna pianta, e i cespugli parvero scostarsi per concedermi di andarmene. Quando mi richiusi il cancello alle spalle mi resi conto che ormai l’alba era prossima. Camminai fino alla riva del mare, evitando rispettosamente di recarmi sul famoso promontorio di Greenfield, ma fermandomi su una qualsiasi spiaggia solitaria. Osservai l’orizzonte dove la fatata sfera d’arancio del sole emergeva lentamente dalle quiete acque marine. Non avevo fatto caso ai gabbiani che si levarono in volo tutti insieme, e guardai con stupore lo stormo che si librava nel limpido cielo. Non potei impedirmi di sorridere quando scorsi una coppia d’uccelli che si allontanò dagli altri e, anziché puntare verso l’alba che ormai tutti osservano con noncuranza, si innalzò altissima nel cielo d’occidente, verso le ultime stelle che solo gli occhi dei veri sognatori possono vedere.














3 commenti:

  1. Complimenti vivissimi a Ivan per questo racconto molto dolce che sicuramente lusinga il Signore e la Signora come lui li ha chiamati. Hai una gran sensibilità e sei un vero sognatore... in bocca al lupo per il tuo futuro personale e artistico...

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  2. Ma per tutti i demoni, Valentini, l’hai postato veramente! Grazie di cuore, per me è davvero un onore poter vedere pubblicata questa sorta di fan fiction (perché di questo si tratta: io sono un FAN di Valentini!) Grazie mille anche al commento, troppo gentile!

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  3. Leggere un "racconto" con gli occhi lucidi e con il cuore che batte a mille è una grande emozione. Forse anch'io appartengo al mondo dei veri sognatori, e per questo labile al racconto di una poesia che si bacia con il sogno di un mondo che non ci appartiene in armonia con ciò di cui abbiamo bisogno.
    Ivan è un grande poeta e abilissimo scrittore dotato di sensibilità,sentimento e tutto quanto possa rendere una persona speciale.
    Complimenti a te mio caro amico,
    e grazie a Valentini per avere postato questa meraviglia.
    Chiara

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